Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne tornarono solo 16, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino. Sabatino Finzi era un ragazzo, che pesava 36 chili, quando tornò. Tutti gli altri 1066 morirono in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre 200 bambini sopravvisse.
Nonostante il colpo delle leggi razziali, gli ebrei ancora rimasti nella Capitale dopo l’8 settembre del 1943, data dell’ufficializzazione dell’Armistizio, erano fiduciosi nel fatto che non vi sarebbero stati dei veri e propri pogrom come nelle città orientali dell’Europa, di cui comunque si sapeva poco e frammentariamente. Come scrive uno dei maggiori storici italiani di quel periodo, Renzo De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993), «il modo con cui si era fino allora svolta tra noi la persecuzione, la presenza in Italia del Vaticano, le leggi emesse o riconfermate dalla RSI con tutte le loro eccezioni e la loro apparente umanità illusero in un primo momento centinaia e centinaia di ebrei». Inevitabilmente, questo contribuì a segnare il loro tragico destino.
Questa consapevolezza affiora anche nella deposizione di una teste italiana nel processo svoltosi a Tel Aviv contro Eichmann: «Credevamo che la situazione degli ebrei italiani fosse speciale e avevamo l’impressione che certe cose non potessero capitare qui da noi».
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Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di consegnare 50 chili d’oro, pena la deportazione di 200 persone, illuse gli ebrei romani che tutto quello che i tedeschi volevano fosse un riscatto in oro. In realtà nelle stesse ore le S.S., con l’ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, stavano già organizzando il blitz del 16 ottobre.
«Qui ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei»
C’è una lapide sulla facciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte a Via del Portico d’Ottavia, quasi di fronte alla Sinagoga. Ricorda che «qui ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei». Qui, in un’alba di 56 anni fa, si radunarono i camion e i soldati addetti alla “Judenoperation” nell’area del ghetto, dove ancora abitavano molti ebrei romani. Il centro della storia e della cultura ebraiche a Roma stava per vivere il suo giorno più atroce. «Era sabato mattina, festa del Succot, il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte, portavano un bigliettino dattiloscritto. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, via anche i malati, nel campo dove vi porteranno c’è un’infermieraio», così Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, ha ricordato quella mattina del 16 ottobre 1943.
Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziarono in contemporanea la caccia per i quartieri di Roma.
Questo rastrellamento fu effettuato da uno speciale reparto delle SS, venuto appositamente a Roma al comando del Cap. Donneker, il quale, tramite Kappler, aveva ottenuto dalla Questura di Roma circa 20 agenti di polizia in qualità di collaboratori.
L’antico quartiere ebraico fu l’epicentro di tutta l’operazione. Le S.S. entrarono di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo poco più in là del Portico d’Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello.
«I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola», ricorda Giacomo Debenedetti.
L’azione è capillare: nessun ebreo doveva sfuggire alla deportazione. Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vennero caricati a forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le S.S. registrarono la cattura di 1024 ebrei romani.
«Povera carne innocente»
Scrive Settimia Spizzichino nel suo libro “Gli anni rubati”: «Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria. I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini… e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli… Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? “Campo di concentramento” allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager».
Per la prima volta Roma era testimone di un’operazione di massa così violenta. Tra coloro che assistettero sgomenti ci fu una donna che piangendo si mise a pregare e ripeteva sommessamente: «povera carne innocente».
La razzia dal Ghetto al resto di Roma
Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior numero di arresti si ebbe a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Alcuni si salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle case di vicini, di amici o trovando rifugio in case religiose, come gli ambienti attigui a S. Bartolomeo all’Isola Tiberina.
Dal Collegio Militare ad Auschwitz
Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel collegio Militare di via della Lungara, a pochi passi dal Ghetto. Le oltre 30 ore trascorse al Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c’erano 207 bambini.
L’ufficiale nazista Herbert Kappler così descrisse l’operazione nel rapporto inviato al generale delle S.S. Wollf: «Oggi è stata iniziata e conclusa l’azione antigiudaica seguendo un piano preparato in ufficio che consentisse di sfruttare le maggiori eventualità. Nel corso dell’azione che durò dalle ore 5.30 fino alle 14.00 vennero arrestati in abitazioni giudee 1259 individui e accompagnati nel centro di raccolta della scuola militare […]. Il trasporto è fissato per lunedì 18 ottobre ore 9».
Quel lunedì 18 ottobre i prigionieri vengono caricati su un convoglio composto da 18 vagoni piombati in partenza dalla Stazione Tiburtina. Il 22 ottobre il treno arrivò ad Auschwitz. Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne tornarono solo 16, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino. Sabatino Finzi era un ragazzo, che pesava 36 chili, quando tornò. Tutti gli altri 1066 morirono in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre 200 bambini sopravvisse.
Fonte: http://www.16ottobre1943.it/
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