Prima definiamo la parola «glossolalia». Secondo il Dizionario Devoto-Oli della lingua italiana, questa parola significa: «1. La coniazione, talvolta patologica, d'associazioni sillabiche prive di senso. 2. La presunta facoltà di pregare e lodare Dio in una lingua misteriosa, intesa solo dai primi cristiani forniti carismaticamente del dono dell'interpretazione». Secondo l'etimologia della parola, glossolalia significa «parlata in [altra] lingua» o il «parlare in linguaggi». Secondo l'uso generale dei pentecostali, significa «la capacità di parlare in lingue umane, mai studiate, o di parlare nel linguaggio mistico degli angeli, per opera dello Spirito Santo».
Storicamente sembra che questo fenomeno sia esistito attraverso i secoli, sia fuori che dentro la chiesa cristiana. Alcuni carismatici, quando invitati a citare dei personaggi religiosi che parlarono in lingue, nominano alcuni santi della chiesa romana, come Patrizio, missionario in Irlanda, Francesco, Teresa d'Avila, Francesco Xavier; e uno di loro aggiunge: «Probabilmente Martin Lutero, i Quaccheri, i Valdesi e i primi Metodisti».
2. PENTECOSTALI E CARISMATICI: Per ciò che riguarda i problemi che la chiesa affronta oggi, possiamo dividere coloro che praticano la glossolalia in due gruppi: i pentecostali «classici» o «storici» e i «neopentecostali» che sono spesso chiamati «carismatici».
2.1. IL MOVIMENTO PENTECOSTALE STORICO: Esso è spesso fatto risalire a un risveglio avvenuto in California (USA) nel 1903, in alcuni credenti che desideravano una vita spirituale più profonda e che, mentre pregavano per ottenere la pienezza dello Spirito Santo, fecero inaspettatamente l'esperienza di formulare con la bocca degli strani suoni, che non facevano parte di nessuna lingua a loro conosciuta. In seguito, crederono di capire che si trattava del ripetersi del fenomeno della Pentecoste e continuarono a sviluppare la loro esperienza, arrivando all'interpretazione delle loro strane lingue e alla «riscoperta» della dottrina che spiegava la loro esperienza.
Quei credenti scoprirono ben presto che le loro dottrine non erano condivise e approvate dagli altri credenti delle loro comunità evangeliche e videro la necessità di formare delle nuove comunità, in cui tutti praticavano la glossolalia. In seguito, queste comunità s'unirono per formare diverse denominazioni pentecostali.
In generale, queste nuove denominazioni condividevano gran parte del patrimonio dottrinale delle altre chiese evangeliche: ▪ 1. la fede nella Bibbia come Parola ispirata di Dio; ▪ 2. la Trinità e la divinità di Gesù Cristo; ▪ 3. la necessità della nuova nascita per fede senza le opere (spesso essi credevano però che fosse possibile perdere la salvezza); ▪ 4. la pratica del battesimo e della Santa Cena; ▪ 5. la necessità di vivere una vita santa; ▪ 6. l'importanza e la pratica dell'evangelizzazione.
Per ciò che riguardata particolarmente la dottrina dello Spirito Santo, queste chiese pentecostali credevano quanto segue: ▪ 1. lo Spirito Santo rigenera il credente e abita in lui dal momento della conversione; ▪ 2. è necessaria per ogni credente una «seconda opera» dello Spirito Santo, per mezzo della quale il credente è santificato e «battezzato nello Spirito Santo»; ▪ 3. questo battesimo è sempre accompagnato dalla glossolalia come segno che è avvenuto; ▪ 4. la glossolalia può, e deve, essere esercitata sia nella preghiera privata che nelle riunioni pubbliche.
Alcune caratteristiche spesso attribuite alle chiese pentecostali sono le seguenti: ▪ 1. l'entusiasmo che spesso raggiunge l'emotività e perfino la perdita dell'autocontrollo; ▪ 2. l'accento messo sulle esperienze carismatiche a scapito dello studio e della conoscenza articolata della Bibbia; ▪ 3. una tendenza a svilupparsi maggiormente fra le persone meno istruite e spesso con pastori poco preparati biblicamente; ▪ 4. una generale instabilità, dovuta a una relativa alta percentuale, che non continua nella fede dopo alcune esperienze iniziali, e a scismi e scomuniche nel movimento stesso; ▪ 5. uno spirito settario.
2.2. IL MOVIMENTO «NEOPENTECOSTALE» O «CARISMATICO»: Esso è cominciato in modo diverso, anche se ha delle somiglianze con quello dei pentecostali «classici». Però il suo sviluppo è stato abbastanza diverso.
Anche questo movimento è cominciato fra persone già credenti, spesso fra i membri o il clero di chiese evangeliche fra le più formaliste, quali l'episcopale, la presbiteriana e la luterana. Di solito, non derivava da esperienze emotive sconvolgenti, ma da una ricerca ragionata d'una più profonda spiritualità. Spesso queste persone, o le loro chiese, non professavano completamente la fede evangelica ortodossa, ma avevano accettato delle dottrine e delle posizioni critiche verso coloro che erano più conservatori dottrinalmente.
Ciò che ha contraddistinto questi nuovi carismatici è proprio il fatto che, a causa delle posizioni che avevano nelle loro chiese e denominazioni, decisero di restare in seno a esse, anche se le loro esperienze carismatiche non erano condivise dagli altri. Perciò, si può dire che oggi vi siano dei carismatici pienamente inseriti in quasi tutte le chiese protestanti del mondo, come pure nella chiesa cattolica romana.
Perciò, non è possibile trovare una posizione dottrinale comune fra questi carismatici per ciò che riguarda l'ispirazione della Bibbia, la salvezza, il battesimo, la Santa Cena, eccetera. Sull'opera dello Spirito Santo, per ciò che riguarda la glossolalia, però, non hanno particolari contrasti coi pentecostali «classici».
3. IL PROBLEMA: Ora, perché questa presentazione si chiama «Il problema della glossolalia»? In quale senso è per noi un problema. Primo, è un problema perché anche noi crediamo alla Bibbia, come i pentecostali, e desideriamo vivere pienamente in sottomissione a essa o a tutto ciò che Dio vuole fare nelle nostre vite. Perciò, se fosse vero che non abbiamo sperimentato un'opera importante, che lo Spirito Santo dovrebbe fare in noi, e se non l'abbiamo dimostrata con il suo supposto segno inconfondibile (la glossolalia), e se il ministero nelle nostre chiese è privo d'uno o più doni che Dio ha voluto darci per la nostra edificazione, allora noi abbiamo davvero un grosso problema da risolvere.
Allora, il nostro più grande problema è di essere sicuri che comprendiamo ciò che la Bibbia insegna su questi argomenti e, in secondo luogo, che sappiamo in qualche modo spiegarci cosa stia veramente succedendo e quali spiegazioni ci siano delle esperienze che altri effettivamente fanno.
In seguito, resteranno altri due problemi. Nel caso che, dopo il nostro studio, rimanessimo più convinti che mai delle nostre posizioni, dovremo decidere come comportarci néi confronti dei pentecostali «classici» e del nuovo movimento carismatico.
Il problema, che è spesso sorto nei nostri contatti coi pentecostali classici, è che il loro spirito settario e battagliero ha turbato noi e le nostre chiese. Essi rivelano questo spirito nei seguenti modi: ▪ 1. attaccano direttamente chi non condivide la loro credenza e la loro esperienza riguardo alle lingue; ▪2. cercano di convincere altri credenti, già felicemente inseriti in altre chiese e che hanno una vita morale o spirituale esemplari, che a loro manca qualcosa d'essenziale (alle volte, arrivando anche a mettere in dubbio la loro salvezza); ▪ 3. con questi loro atteggiamenti chiudono ogni possibilità o desiderio di collaborare con altri e ostacolano altri che sarebbero desiderosi di collaborare con loro.
Riguardo ai neopentecostali (o carismatici), invece, il problema sta nel capire come possa essere possibile che siano veramente convertiti e ripieni dello Spirito Santo, mentre professano dottrine, che noi riteniamo biblicamente false, e spesso incoraggiano energicamente un'apertura ecumenica che noi riteniamo antibiblica.
Per esempio, mentre, da una parte, i carismatici cattolici dichiarano che la loro esperienza di battesimo nello Spirito Santo gli ha dato una maggiore devozione alla messa e alla Madonna, e una maggiore prontezza a sottomettersi alla gerarchia della chiesa romana, dall'altra professano anche che il movimento carismatico è voluto da Dio proprio per unire tutti i credenti e che porterà alla chiesa universale.
Ora, sia i pentecostali classici, sia i neo-pentecostali, ci portano a cercare la risposta alle seguenti domande: ▪ 1. È vero che ogni credente deve cercare, dopo la sua conversione, il battesimo nello Spirito Santo? ▪ 2. È vero che il segno essenziale del battesimo nello Spirito Santo sia il parlare in lingue sconosciute? ▪3. È vero che il «dono delle lingue» esiste ancora oggi? Se noi possiamo, in base allo studio della Bibbia, rispondere di «no» a una di queste domande, o anche a due o a tutte e tre, allora, dovremmo dire che il movimento pentecostale è sbagliato nella sua comprensione e nel suo insegnamento della Bibbia.
Però ciò potrebbe fare sorgere altre domande: ▪ 4. Se non è necessario, o neanche possibile, parlare in lingue oggi, come si spiega e giustifica ciò che è successo e che è descritto nella Bibbia? ▪ 5. Come si spiega ciò che effettivamente succede fra i carismatici? ▪ 6. Come dovremmo comportarci davanti ai carismatici?
Nel resto di questo studio vogliamo rispondere a queste domande in modo serio, alla presenza di Dio, con la guida dello Spirito Santo e nell'attento ascolto della sua Parola.
4. BATTESIMO DI SPIRITO DOPO LA CONVERSIONE?: È vero che ogni credente deve cercare, dopo la sua conversione, il battesimo dello (o nello) Spirito Santo? È chiaro che non è legittimo basare delle dottrine sul silenzio della Bibbia. E su quest'argomento la Bibbia tace completamente. Mai è detto che un credente dovrebbe «cercare» o «aspettare» il battesimo dello Spirito Santo dopo la sua conversione. Mai è detto che qualche credente abbia aspettato o cercato questo battesimo.
In Atti 1,4, Gesù ordinò ai discepoli d'aspettare in Gerusalemme «il compimento della promessa del Padre». Qual era la «promessa del Padre»? In Giovanni 14,16.26, la risposta è: «la venuta del Consolatore» cioè dello Spirito Santo.
Poi, in Atti 1,5, Gesù promise che fra non molti giorni sarebbero stati battezzati con lo Spirito Santo. La realizzazione di questa promessa non era condizionata dal loro aspettare, ma dalla realizzazione della promessa del Padre, cioè la discesa dello Spirito Santo.
Prima che fosse venuto (o disceso sulla terra) il Consolatore, era impossibile che i discepoli e gli altri credenti fossero «battezzati» per mezzo di Lui. Ma ciò non significa che ora i credenti debbano aspettare in Gerusalemme (o in qualsiasi altro posto) la discesa dello Spirito Santo e il suo battesimo, perché Egli è già venuto, una volta per sempre, per prendere il posto di Gesù e ora abita nel cuore d'ogni credente e dimora nella chiesa.
Il motivo per cui nessun credente deve aspettare, dopo la sua conversione, il battesimo nello Spirito Santo è che ogni credente è già battezzato dallo Spirito Santo, nel momento stesso della conversione, per entrare a fare parte del corpo di Cristo (1 Corinzi 12,13). Alle volte, i pentecostali cercano di fare delle distinzioni fra il battesimo «nello» Spirito, «con» lo Spirito o «dallo» Spirito, ma queste distinzioni non hanno alcun senso, grammaticalmente nel greco o in italiano, né teologicamente.
Perciò la dottrina sostenuta dai pentecostali e neopentecostali, che il credente deve aspettare e ricercare il battesimo dello Spirito Santo è una dottrina falsa, basata su un'errata interpretazione d'alcuni passi biblici (anche se questo non mette in dubbio la loro sincerità, la loro vera conversione o il loro amore per la Parola di Dio).
5. BATTESIMO DI SPIRITO E GLOSSOLALIA: È vero che il segno essenziale del battesimo nello Spirito Santo sia il parlare in lingue sconosciute? Di nuovo, bisogna dire che non è giusto basare una dottrina su un fatto, di cui la Bibbia tace. Mai la Bibbia afferma e mai un apostolo ha scritto che la prova del battesimo dello Spirito Santo sia il parlare in lingue.
In Atti 2,4, Luca mette in relazione diretta il fatto che i 120 erano «ripieni» di Spirito Santo (che neanche i pentecostali affermano sia sinonimo dell'essere battezzati di Spirito Santo), col fatto che «cominciarono a parlare in altre lingue» (si noti, però, che Atti 4,31 i credenti furono di nuovo «ripieni» di Spirito Santo e non parlarono in lingue!).
In Atti 10, nella casa di Cornelio, non è mai detto che i gentili che credettero fossero, specificatamente battezzati di Spirito Santo. Essi però parlarono in lingue. Luca dice che «lo Spirito Santo cadde su di loro», che «il dono dello Spirito Santo» fu sparso e che «hanno ricevuto lo Spirito Santo». (È anche interessante che quei convertiti non dovettero aspettare o ricercare alcunché, ma solo ascoltare l'Evangelo e credere; dopo di che immediatamente ricevettero il dono dello Spirito, e parlarono in lingue).
In Atti 11,15-17, Pietro spiegò ciò, che era avvenuto nella casa di Cornelio, come la discesa dello Spirito Santo su di loro, come battesimo di Spirito Santo, come il dono di Dio; e disse che tutto ciò era il risultato del fatto che avevano creduto in Cristo e non dell'avere aspettata o ricercato una qualche esperienza. La conclusione degli altri credenti, dopo il discorso di Pietro, non fu che il parlare in lingue dimostrasse che i gentili avessero ricevuto il battesimo dello Spirito Santo, ma che Dio aveva dato loro il dono di ravvedersi per ottenere la vita (Atti 11,18).
Nel terzo, e ultimo passo del Nuovo Testamento, in cui si legge del momento in cui qualcuno parlò in lingue (Atti 19,4s), Paolo spiegò ad alcuni uomini la salvezza in Cristo e questi furono battezzati in acqua, con l'imposizione delle mani da parte di Paolo. In quel momento, lo Spirito Santo scese su loro e parlarono in lingue, ma la Bibbia no dice che abbiano dovuto aspettare o ricercare il battesimo dello Spirito Santo né che il battesimo dello Spirito Santo avesse a che fare col loro parlare in lingue.
A Samaria, invece, quando Pietro e Giovanni imposero le mani sui neoconvertiti samaritani, è scritto che essi ricevettero lo Spirito Santo, ma non vi è alcun riferimento che ciò fosse accompagnato dal parlare in lingue, come segno della sua discesa.
D'altra parte, quando Filippo evangelizzò l'Etiope, questi credette e fu battezzato in acqua, ma Luca non fa alcun riferimento a un dono o battesimo nello Spirito Santo, né che l'Etiope parlasse in altre lingue. Ciò significherebbe che Filippo abbia trascurato quest'importante insegnamento, o che questo credente non fosse battezzato nel corpo di Cristo? Insomma, l'insegnamento biblico non conferma in alcun modo che il parlare in lingue sia in relazione con un avvenimento specificatamente chiamato il battesimo dello Spirito Santo (cioè qualcosa di diverso dalla discesa dello Spirito Santo su chi crede, e il dono dello Spirito Santo al nuovo credente). Tanto meno la Bibbia dice, o lascia intendere, che il parlare in lingue sia «il segno specifico e unico», che deve accompagnare il battesimo nello Spirito Santo, né che il credente che non ha mai parlato in lingue non sia perciò stato battezzato dallo Spirito Santo.
Se la Bibbia non dice mai che il parlare in lingue sia il segno del battesimo dello Spirito Santo, allora l'insegnamento generale dei pentecostali e dei neopentecostali, secondo cui ogni credente ha bisogno, dopo la conversione, di ricevere il battesimo dello Spirito Santo e deve, almeno quell'unica volta nella sua vita, parlare in lingue come segno e conferma del battesimo, è una falsa dottrina. Nella pratica, questa dottrina spinge molti credenti quasi alla disperazione, credendo che Dio non li abbia accettati o che non siano degni del battesimo dello Spirito, perché non riescono a parlare in lingue. Spinge molti altri anche a fingere dì parlare in lingue, ripetendo suoni suggeriti loro da altri. Permette, inoltre, ad alcuni che non hanno mai sperimentato la nuova nascita, di credere d'essere a posto con Dio perché hanno pronunciato delle sillabe o frasi incomprensibili.
6. GLOSSOLALIA ANCORA OGGI?: È vero che il dono delle lingue esiste ancora oggi? Molti pentecostali fanno una distinzione: da una parte ci sarebbe il palare in lingue, descritto in Atti 2, a Pentecoste, che essi ritengono segno del battesimo dello Spirito Santo e necessario per ogni credente; e dall'altra parte ci sarebbe il «dono delle lingue» nominato in 1 Corinzi 12,10.30 che sarebbe esercitato solo da pochi credenti che hanno ricevuto questo, anziché qualche altro, dono da adoperare nella chiesa.
Altri credono che i doni esercitati nella chiesa di Corinto, secondo 1 Corinzi 14 fossero diversi da quello di Pentecoste, anche se tutti e due genuini e legittimi.
Perciò queste differenze d'opinione ci propongono altre tre domande: ▪ 1. Quali doni di lingue esistevano nella chiesa primitiva? ▪ 2. Qual era lo scopo di quei doni? ▪ 3. Il compimento di tale scopo prevedeva la cessazione di quei doni dopo un certo tempo (e, se mai, dopo quanto tempo?) o la loro continuazione per tutta la vita della chiesa?
Il primo riferimento al dono dello lingue si trova in Marco 16,17: «Parleranno in lingue nuove». E questo fatto è elencato fra «i segni» che avrebbero accompagnato l'annuncio dell'Evangelo. Qui non si fa alcun riferimento né al battesimo dello Spirito Santo né a un ministero svolto per mezzo delle lingue, ma unicamente a un «segno».
Le due parole qui tradotte «nuove lingue» sono in greco glossais kainais e significano precisamente «linguaggi nuovi» (nel senso di diversi da quelli normalmente parlati e non «nuovi» nel senso di «mai esistiti prima»). Che questo segno sia stato manifestato alla Pentecoste è ovvio a tutti, ma non è mai detto che esso (o gli altri segni quali il bere del veleno senza soffrirne) dovessero manifestarsi in tutti i tempi e in tutti i credenti, come segno del battesimo dello Spirito Santo.
In Atti 2,1-33, abbiamo il passo più completo, più dettagliato e più chiaro sull'uso delle lingue nuove nel Nuovo Testamento.
In questo passo è ovvio che tutti i credenti, senza volerlo o cercarlo, parlarono in linguaggi normali, conosciuti e usati correntemente in altri paesi, ma che erano per loro «nuovi», perché mai parlati o studiati da loro prima. In questi linguaggi, essi hanno glorificato Dio in modo che gli astanti li hanno potuti capire, senza interpreti. Nel suo discorso successivo, Pietro spiegò che quel fenomeno era in relazione con le profezie di Gioele, il quale parlò della venuta dello Spirito Santo e dei segni che Dio avrebbe dato agli uomini (vv. 18s). Egli affermò che Cristo era stato confermato da Dio come suo Figlio, da segni o prodigi (v. 22) e che, nel giorno della Pentecoste, il Cristo esaltato confermava la discesa dello Spirito Santo con segni (v. 35).
Qui vediamo precisamente manifestato uno dei «segni» che Cristo donò alla chiesa apostolica, da compiere per mozzo di loro e per conformare il loro ministero. In Atti 4,30, la chiesa pregò che quei segni si manifestassero. È significativo che gli unici casi successivi, in cui la Bibbia parla di casi veri dell'apparizione di linguaggi nuovi, fu in presenza degli apostoli e per mezzo della loro testimonianza. Sia nei casi di Cornelio e familiari (Atti io) e dei discepoli di Giovanni (Atti 19), le persone che parlarono in linguaggi «nuovi» furono chiaramente comprese nel loro dire, come alla Pentecoste.
Questo ministero particolare della chiesa primitiva, confermato da segni, è nominato in Ebrei 2,4 come qualcosa che apparteneva a coloro che avevano personalmente udito e visto il Signore, e che era ormai passato. Questo corrisponde a quella funzione precisa, e irripetibile, degli apostoli, d'essere stati dei testimoni, particolarmente scelti da Dio (Atti 10,41s). Essi non affidarono il loro messaggio e i loro poteri a una successione apostolica umana, ma scrissero la loro testimonianza di testimoni oculari (vedi 2 Pietro 1,16.20s e 1 Giovanni 1,1-4). Perciò, il credente oggi non ha bisogno di porre fede in nuovi segni, ma unicamente nella Parola scritta di Dio, e non ha bisogno di segni per confermare la sua fede, perché Io Spirito Santo comunica col suo spirito (Romani 8,16) è la fede viene non dal vedere dei miracoli, ma dall'ascolto della Parola di Dio (Romani 10,17).
In modo particolare, Dio aveva promesso dei segni al suo popolo, agli Ebrei, come Pietro ha ricordato riferendosi alle profezie di Gioele nel giorno della Pentecoste. Infatti, essi cercavano questi segni come affermò Paolo ai Corinzi (1 Corinzi 1,22: «I Giudei chiedono dei miracoli»).
Infatti, v'era un segno particolare che Dio aveva indicato agli Ebrei come dimostrazione del tempo del suo giudizio in seguito al rifiuto del suo popolo d'ascoltare la sua voce. Questo segno era che il suo messaggio, respinto dagli Ebrei, quando ascoltato nel loro proprio linguaggio, sarebbe stato loro ripetuto in altri linguaggi.
A questo fatto, Paolo fa riferimento in 1 Corinzi 14,21s, cioè nel famoso capitolo sulle lingue. Egli dice che Dio aveva profetizzato al popolo (Isaia 28,11), che nel futuro Egli avrebbe parlato loro con altre lingue, linguaggi stranieri, ed Egli chiarisce perfettamente lo scopo di queste lingue nelle tre volte ricordate negli Atti: «Pertanto le lingue servono di segno non per i credenti, ma per i non credenti» (1 Corinzi 14,22). Dato che Paolo aveva citato, nel verso precedente, le profezie d'Isaia, in cui Dio aveva detto che avrebbe parlato «a questo popolo» (cioè agli Ebrei) con altre lingue, diventa chiaro che il segno miracoloso delle, lingue serviva come ammonimento agli Ebrei che il loro Messia, promesso da Dio da tanto tempo, era venuto, e che loro lo stavano rifiutando. Un tale messaggio, provato da un tale segno, poteva servire unicamente agli Ebrei, a cui Isaia aveva scritto la sua profezia, poiché essi formavano «questo popolo», a cui Dio parlava. I pagani non conoscevano le profezie, infatti le profezie non erano indirizzate a loro, perciò il segno delle lingue non poteva avere alcun significato per loro.
Anche se il ministero apostolico, che era stato principalmente indirizzato agli Ebrei, s'era praticamente concluso dopo i primissimi anni a Gerusalemme e nella Palestina, potevano ancora esistere dei gruppi di Ebrei nelle città dell'Impero romano a cui l'annunzio del Messia non era arrivato e che perciò non lo avevano respinto. Per questo motivo, Paolo, nell'elencare per i Corinzi gli autentici doni dello Spirito Santo, nomina ancora quello, che probabilmente era già quasi estinto, delle lingue e della loro interpretazione (vedi 1 Corinzi 12,10.30). In tutti e due i casi, comunque, egli elenca questi doni alla fine della lista, come i meno importanti. Difatti, negli Atti degli apostoli non è mai detto che questo dono fu esercitato neanche una sola volta nelle chiese fondate da Paolo o nella sua evangelizzazione. E non è nominato come esistente in alcuna epistola al di fuori di quella ai Corinzi. È anche interessante che, nel capitolo 13, in cui parla di tre doni che non sarebbero durati nella chiesa, adopera un verbo particolare riguardo alla cessazione del dono delle lingue. Egli dice che i doni delle profezie e della conoscenza verranno «aboliti» (in un momento preciso e per un intervento esterno), ma «quanto alle lingue, esse cesseranno» (1 Corinzi 13,6). Questa affermazione conferma pienamente la provvisorietà del dono di parlare in altri linguaggi come avvertimento agli Ebrei increduli, ma spiega anche che questo dono sarebbe scomparso lentamente. Esso sarebbe sparito, via via che gli Ebrei sarebbero stati messi di fronte alla venuta del Messia e che, come popolo lo avrebbero rifiutato. Oggi non è più necessario che Dio avverta gli Ebrei per mezzo del segno di lingue straniere, perché essi possono leggere le Sacre Scritture e, sotto l'influenza dello Spirito Santo, convincersi di peccato e accettare il Cristo, esattamente come il non credente d'origine gentile o pagana.
7. APPROFONDIMENTI: Qui potrebbe finire questo discorso se non fosse per alcuni fatti. Uno è che, attraverso i secoli, sia nella chiesa sia in altre religioni, delle persone hanno professato dì parlare con linguaggi stranieri, o per mezzo della potenza di Dio o d'altri spiriti. E vi è anche il fatto che molti pentecostali professano di parlare in altre lingue, che non sono lingue conosciute, ma lingue «spirituali» o «celesti» o «angeliche».
Per prima cosa, bisogna dire che la Bibbia non accenna mai minimamente che vi siano due tipi di lingue donate da Dio miracolosamente, e cioè una lingua conosciuta, come quelle della Pentecoste, e un'altra lingua misteriosa ed estatica, per altri usi.
Esattamente come non vi sono molte discese dello Spirito Santo, ma ve n'è una sola, avvenuta al giorno della Pentecoste, e come non vi sono più battesimi dello Spirito Santo, ma ve n'è uno solo, quello per cui ogni credente, al momento della salvezza, è battezzato dallo Spirito Santo per far parte del corpo di Cristo, così non vi sono nella Bibbia due o più tipi di lingue, con doni diversi, manifestazioni diverse e scopi diversi.
Difatti, i pentecostali e i neopentecostali (o carismatici) sono completamente fuori da ogni fondamento biblico quando cercano di giustificare questi due tipi di lingue o, per di più, affermano che, in base al racconto del giorno della Pentecoste, ogni credente deve parlare in una lingua strana almeno una volta nella sua vita e cioè quando è battezzato dallo Spirito Santo. E, poi, essi, nella pratica, ammettono che il loro parlare in lingue in quel momento sia un parlare in un linguaggio inintelligibile, mentre alla Pentecoste, come abbiamo visto, i linguaggi parlati erano conosciuti e correnti. Siccome ciò che effettivamente avviene fra di loro non è un parlare in una lingua intelligibile, ma un pronunciare delle sillabe senza senso, essi hanno dovuto cercare un'altra interpretazione delle loro lingue.
Il loro attaccamento a un secondo tipo di lingue è basato non sul libro degli Atti, ma su alcuni versetti della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Secondo loro, esisterebbe un linguaggio degli angeli, di cui Paolo parla in 1 Corinzi 13,1, che servirebbe primariamente per l'uso privato e non per parlare agli uomini, ma con Dio (1 Corinzi 14,2) o che potrebbe anche essere usato pubblicamente, quando venisse immediatamente «interpretato», cosicché il messaggio contenuto nel discorso in lingue verrebbe espresso in italiano (o nella lingua parlata comunemente dai presenti).
Molti pentecostali e neopentecostali (o carismatici), affermano d'essere capaci di pregare in lingue ogni volta che lo desiderano e ciò è superiore al pregare nella propria lingua, perché è sicuramente ascoltato da Dio, perché è offerto per mezzo dello Spirito Santo, e perché esprime pensieri e bisogni che essi non conoscono a livello conscio.
Dicono, inoltre, che essi stessi sono fortificati spiritualmente - cioè edificati - quando pregano «in lingue» e diventano più coraggiosi ed efficaci nella testimonianza, più gioiosi, superano difficoltà, ricevono guarigione dei loro mali, eccetera. Poi, dicono ancora che, nel parlare in lingue in pubblico, con interpretazione, la chiesa è incoraggiata, e spesso sono ricevute delle nuove rivelazioni riguardanti questa o quella persona o altri avvenimenti.
Ora, vediamo se questo tipo di lingue, completamente diverse da quelle usate nel libro degli Atti, effettivamente trovano la loro giustificazione nella prima lettera di Paolo ai Corinzi.
Primo, nel brano di 12,10.29, la parola usata per «lingue» e la stessa degli Atti, e significa sempre «lingue o linguaggi parlati». La parola tradotta «interpretazione» sarebbe resa più correttamente con «traduzione». In altre parole, alcuni credenti avevano la possibilità di parlare correntemente in lingue «nuove» (non la loro lingua materna) e altri credenti avevano la capacità di tradurre da quella lingua nella lingua conosciuta dalla maggioranza, cioè nella loro lingua materna.
Di solito, i pentecostali spiegano anche come mai, nelle loro riunioni, le «interpretazioni» di discorsi fatti «in lingue» non abbiano una chiara relazione di lunghezza con l'originale. Essi dicono che non si tratta d'un traduzione vera e propria, ma d'una interpretazione», cioè d'una spiegazione completamente libera del contenuto (o del pensiero) dell'originale. Perciò, che essa sia più lunga o più corta, non ha importanza.
Ma la parola usata dall'apostolo Paolo non prevede questa libertà. Egli parla di traduzione, che vuol dire riportare un discorso, più esattamente possibile, da un linguaggio a un altro, senza tagli o aggiunte.
Non vi è, nelle epistole, alcun preciso esempio dell'uso di questi doni elencati in 1 Corinzi 12, perciò ci domandiamo come lo Spirito Santo li adoperi praticamente. In un caso - il più probabile - si potrebbe riferire a quel tipo d'avvertimento miracoloso, che abbiamo già discusso e che Dio dava al popolo riguardo alla venuta del Messia, come a Pentecoste, e limitato all'uso davanti a un pubblico ebraico. Ma in 1 Corinzi, Dio avrebbe permesso (diversamente che negli Atti) che il messaggio in lingua straniera fosse tradotto per chi non lo capiva.
La seconda spiegazione potrebbe essere che questi «doni» di lingue e di interpretazione siano il possesso e l'uso spirituale, donati da Dio, della capacità di parlare in una seconda lingua, o d'interpretare, come accade oggi per missionari, linguisti, traduttori al servizio di Dio. Anche gli altri doni e ministeri, elencati in 1 Corinzi 12, potrebbero essere intesi nello stesso modo, come ministeri di capacità normali, ma aumentati d'efficacia spirituale in modo sovrannaturale.
Comunque sia, non vi è alcun motivo per credere, che Paolo parli in 1 Corinzi 12, di lingue incomprensibili o lingue angeliche.
In 1 Corinzi 13, Paolo comincia dicendo: «Quand'io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli...». Questo riferimento agli angeli ha spinto molti pentecostali a spiegare ciò che succede in mezzo a loro, e che è altrimenti inspiegabile, come il possesso del dono di parlare un linguaggio angelico.
In primo luogo, la Bibbia non afferma che gli angeli parlino dei linguaggi diversi da quelli degli uomini; perciò ogni interpretazione in questo senso è soltanto fantasia. Ogni volta che la Bibbia parla dell'apparizione d'un angelo, questo s'esprimeva in un linguaggio conosciuto. Perfino nell'Apocalisse, le parole o i discorsi degli angeli sono sempre presentati in lingua normalmente umana, senza alcun riferimento al fatto che ciò che è scritto sia una traduzione della lingua angelica.
Poi, quando si comincia a studiare seriamente il significato dei primi versetti del capitolo 13 di 1 Corinzi, salta all'occhio che Paolo sta usando addirittura due formo grammaticali che bisogna tenere presenti: la forma ipotetica e la forma iperbolica.
Se egli avesse desiderato affermare che esiste una lingua parlata soltanto dagli angeli, e che egli la parlava ,avrebbe potuto, e dovuto, scrivere: «Quand'io parlo le lingue degli angeli....», e tutti avrebbero capito che egli, a volte, parlava effettivamente quella strana lingua.
Ma quando egli usa la forma ipotetica: «Quand'io parlassi...», egli non dice né che parlava la lingua degli angeli né che tale lingua esisteva. Egli stava soltanto formulando un caso ipotetico (che potrebbe o non potrebbe essere effettivamente possibile realizzare) per rendere più chiaro il suo ragionamento. È come se io dicessi: «Quand'anche io sapessi suonare il pianoforte...». Ci non indica che io so suonare il pianoforte, anzi, dato che m'esprimo con la forma ipotetica e dubitativa, è implicito che io non lo so suonare. Ecco, allora, il valore della forma ipotetica. Essa non afferma niente. Lascia tutto in sospeso e forma soltanto un'ipotesi.
Ma, Paolo, oltre a usare la forma ipotetica e dubitativa, adopera anche un'altra forma letteraria di discorso, e cioè la forma iperbolica, dal verso 1 fino al verso 3. Per rafforzare il peso della sua argomentazione, egli afferma, o mette in dubbio, cose che vanno al di là dell'effettiva realtà e che sono da comprendere come effettivamente non realizzate né, forse, realizzabili.
È come se - invece di dire: «Quand'anche io sapessi suonare il pianoforte....» - io affermassi: «Quand'anche sapessi volare come un uccello...». Detto così, diventa evidente che sto mettendo là realtà a confronto con qualcosa che non è possibile,.
Ora, nel discorso di Paolo, è evidente che il suo ragionamento iperbolico esprime della possibilità non esistenti nella realtà. Infatti, egli non aveva affatto tutte le qualità che elenca: egli non parlava (implicitamente tutte le lingue) degli uomini, non conosceva tutti i misteri e tutta la scienza, non aveva tutta la fede da trasportare i monti, non distribuiva tutte le sue facoltà, non dava il suo corpo a essere arso. E non parlava neanche un linguaggio degli angeli. Non diceva neanche che una tale lingua esisteva. Non diceva che, se esistesse, qualche uomo l'avrebbe potuta parlare.
In altre parole, che i fratelli pentecostali prendano questo verso per provare che esiste, un linguaggio degli angeli e che Paolo parlava tale lingua e che essi la parlano ora, non è un'esegesi seria e spirituale della Bibbia.
Ora, il capitolo fondamentale in cui si parla di «lingue» è 1 Corinzi 14 e, quando avremo finito lo studio accurato di questo capitolo, avremo finito praticamente di rispondere alle domande che ci siamo poste.
In primo luogo, se il capitolo 14 fosse chiaro e facilmente comprensibile, non esisterebbero differenze fra pentecostali e non-pentecostali, tutti e due sinceramente desiderosi di conoscere la volontà di Dio e farla. Se tutto fosse scritto in modo chiaro, con dichiarazioni positive e senza l'uso di varie forme stilistiche grammaticali, tutti lo comprenderemmo alla prima lettura, e tutti saremmo pentecostali o non-pentecostali, senza alcuna divergenza. Ma, in questo capitolo, vi sono delle frasi che servono sia all'una come all'altra posizione.
Quando Paolo dice che chi parla in lingue parla con Dio, che egli parlava in lingue più di tutti i Corinzi, che egli desiderava che tutti parlassero in lingue, sembrerebbe chiaro che tutti dovremmo diventare pentecostali.
Quando egli dice, al contrario, che tutte le lingue, e perfino gli strumenti, esistono per farsi capire e non per nascondere il proprio significato; che egli preferiva cantare e pregare non in lingue (cioè con lo spirito, ma senza l'intelligenza); che nella chiesa preferiva dire cinque parole comprensibili anziché 10.000 incomprensibili, sembra che stia dalla parte dei non-pentecostali.
Come bisogna, allora, capire questi ragionamenti di Paolo? È possibile trovare una chiave che metta tutte queste frasi in accordo fra loro? Prima di tutto, bisogna allontanarsi un momento dagli alberi per poter vedere la foresta, cioè distogliere lo sguardo dai particolari per vedere il tutto. Come notate sopra, Paolo è maestro dello stile nello scrivere, per variare e per esprimersi con più forza. Ma ciò richiede che i lettori siano sulla «stessa lunghezza d'onda» e comprendano, quando fa una domanda, quale sia la risposta implicita, anche se non è data esplicitamente Alle volte, Paolo è capace perfino d'usare dell'ironia, affermando come vero ciò che gli altri credono, per fare capire che egli non è affatto d'accordo. Per esempio, in 1 Corinzi 4,8, egli scrive: «Già siete saziati, già siete arricchiti, senza di noi siete giunti a regnare». E poi, sgonfia questa loro pretesa, aggiungendo ancora ironicamente: «E fosse pure che voi foste giunti a regnare, affinché anche noi potessimo regnare con voi!».
Allora, non ci sorprendiamo se troviamo nel capitolo 14 delle frasi, delle affermazioni, delle domande, dei confronti, che potrebbero sembrare paradossali o perfino in contraddizione fra loro.
Un'altra importante considerazione interpretativa di questo capitolo è che esso presenta un costante contrasto fra il dono della profezia e il dono delle lingue.
Nel verso 1, esorta di procacciare principalmente il dono della profezia. Nel v. 3 dice che questo dono edifica, esorta, consola. Nel v. 4, dice che essa edifica la chiesa. Nel v. 5 dice che preferisce per tutti il dono della profezia, perché è il dono maggiore e chi lo usa è superiore a chi usa un altro dono. Nel v. 19 dice che cinque parole dette per istruire (come nella profezia), sono preferibili a 10.000 inintelligibili. Nel v. 22 dice che la profezia serve ai credenti. Nei vv. 24-25 dice che essa serve anche ai non credenti.
Vediamo, invece, ciò che dice riguardo a chi parla in «altra lingua». Nel v. 2 dice che non parla agli uomini, che nessuno l'intende. Nel v. 4 fa capire che essa non edifica la chiesa. Nel v. 9 dice che chi lo fa «parla in aria». Nei vv. 14-15 dice che l'intelligenza rimane infruttuosa. Nel v. 20 fa capire che il loro comportamento è infantile. Nel v. 26 dice che tutto deve essere fatto, nella chiesa, per l'edificazione.
Le frasi in cui, invece, l'apostolo parla delle lingue in maniera che sembra positivo sono le seguenti: nel v. 5, egli dice: «Ben vorrei che tutti parlaste in altre lingue». Nel v. 18, egli dice che egli parla «in altre lingue» più di tutti loro. Nel v. 39, egli dice di non impedire di parlare in altre lingue.
Ora, un fatto interessante e, forse di grande importanza è questo: in tutte le frasi citate qui sopra, in cui l'apostolo parla in modo di considerare poco importante o inutile ciò che i Corinzi facevano, egli parla di «altra lingua» al singolare. Nei passi qui citati, in cui parla positivamente, Paolo parla invece, di «altre lingue», al plurale.
Il dott. Spiros Zodhiates, uno studioso della lingua greca, sia antica che moderna, e autore di diversi libri d'analisi esegetica dei testi biblici, ha scritto: «Quando Paolo accenna all'usanza dei Corinzi di parlare in lingua, egli si riferisce a suoni inintelligibili non traducibili in forme linguistiche, che avevano origine nello spirito e nelle emozioni dei Corinzi stessi. Quando Paolo si riferisce a questo, egli di solito adopera il numero singolare: "parlare in lingua!". La parola aggiunta dai traduttori, "altra", che induce alcuni a credere che Paolo parlasse di un'altra lingua diversa dà quella materna, non esiste nel testo greco». Zodhiates aggiunge che si trattava di «una lingua sconosciuta agli uomini, non umana, incomprensibile, una lingua inventata che a ragione non poteva essere considerata una lingua».
Riguardo alla parola al plurale, Zodhiates scrive: «Quando Paolo parla della sua capacità di parlare in altre lingue, egli non si riferisce a suoni incomprensibili ma a lingue correnti, impiegate per fare conoscere la grazia di Dio agli uomini. Dobbiamo concludere che quando vuol riferirsi a lingue intellegibili, Paolo usa la forma al plurale, "lingue" e non "lingua"».
Paolo dice che quando i Corinzi parlano «in lingua», la loro intelligenza rimane infruttuosa. Ma mai la Bibbia insegna che Dio richieda una adorazione o delle preghiere separate dalla nostra intelligenza, o che lo Spirito Santo ci porti a stati d'incoscienza. questa era una credenza dei profeti, o indovini, pagani. Ed è proprio per questo motivo che Paolo afferma in modo categorico che egli non canterebbe o pregherebbe mai «in lingua» (v. 15) ma sceglie d'adorare Dio con la spirito e con l'intelligenza.
In tutto il capitolo 14, non è mai nominato lo Spirito Santo, anzi il parlare «in lingua» è attribuito allo spirito dell'uomo stesso. A questo riguardo, Zodhiates scrive: «Paolo parla non dello Spirito Santo ma dello spirito dell'uomo, cioè della natura psicologica ed emotiva umana. Ciò che troviamo qui è lo spirito dell'uomo che usurpa l'opera dello Spirito di Dio nella vita del credente».
Questi Corinzi, quando parlavano in lingua, non capivano se stessi né altri potevano capirli. Perciò Paolo dice (chissà se ironicamente) che parlavano soltanto con Dio. Egli dice che lo scopo del parlare, del linguaggio, è sempre quello di farsi capire, ma che il parlare senza questo scopo è un nonsenso.
Se ciò che essi facevano era unicamente proferire dei suoni inintelligibili, era possibile «tradurli» in una lingua conosciuta? Ovviamente no. Perciò Paolo ha messo questo freno; se non vi è chi interpreta, che restino zitti.
Allo stesso modo, egli intendeva far smettere queste scene basate sulla carnalità, dicendo che tutto doveva essere fatto per l'edificare, avendo già specificato che quel parlare «in lingua» non edificava né il credente (v. 22) né i non credenti (v. 23). Se al contrario, vi è chi ha la possibilità di parlare «in lingue», cioè in una lingua vera ma conosciuta, e v'era chi poteva fare da interprete, allora ciò poteva servire ai non credenti ebrei, come segno.
Egli dice - o anche questa forse è dell'ironia - ché chi parla in «lingua» dovrebbe pregare anche d'interpretare. Ma, non sarebbe un ragionare da bambini (vietato in v. 20) pensare che Dio voglia dare il suo messaggio alla chiesa tramite il giro strano d'una persona che conosce la lingua locale e parla ad altri, che la conoscono, ma che prima riceve un messaggio miracolosamente «in lingua» (che egli non capisce e i presenti non capiscono), e poi altrettanto miracolosamente, traduca il suo proprio messaggio in lingua locale, quando Dio avrebbe potuto dare il messaggio direttamente nella lingua del popolo?
Qualcuno potrebbe giustamente domandarsi: Perché Paolo ha scritto un capitolo, che si presta a degli equivoci nella comprensione, se avrebbe potuto fare dello affermazioni e dare delle regole molto chiare? In primo luogo, è probabile che il suo discorso, proprio basandosi su questa differenza fra la parola «in lingua», al singolare, e «in lingue» al plurale, fosse molto più chiaro ai Corinzi quando l'hanno ricevuto che non a noi, dopo duemila anni. In secondo luogo, Paolo aveva avuto già tanti motivi per sgridare e correggere i Corinzi in questa sua lettera. Può darsi che egli vedesse in questo loro fanciullesco e carnale desiderio del dono delle lingue, per mettersi in mostra, una cosa da correggere e da fermare, ma, allo stesso tempo, un'indicazione, d'un sincero desiderio di servire Dio, di ricevere e d'usare i suoi autentici doni. Perciò, senza urtare duramente, egli ha chiarito il problema, lasciando ancora a loro di sperimentare nella pratica la soluzione da lui tracciata.
Allora, per concludere risponderemo a questa domanda: A cosa serviva il «dono delle lingue» nella chiesa primitiva? Serviva, secondo l'antica profezia d'Isaia, ad avvertire gli Ebrei della venuta del Messia e del giudizio divino su chi non lo ascoltava.
Questo ministero è finito? Sì, come annunziato da Paolo, le lingue sono cessate e non esiste nella nostra epoca né il bisogno né la possibilità che questo donò sia ripetuto. Qualcuno può domandare: Dio non può fare tutto? Certo, Egli può fare tutto, meno che smentire la sua Parola o trasgredire i suoi stessi piani. L'annunzio del Regno ai Giudei, perché potessero accettare o rifiutare il regno del Messia, è finito e Dio non può e non vuole (secondo la sua rivelazione) cambiare questo piano. Ora Egli non offre il Regno a Israele, ma il Salvatore ai peccatori, e quest'annunzio non dipende dal «segno» delle lingue straniere, ma dalla fedele predicazione della Parola di Dio.
8. ASPETTI CONCLUSIVI: A questo punto siamo arrivati alle seguenti conclusioni.
■ 1. La lingua «angelica», che era soltanto un fare rumori inintelligibili, non è mai stata approvata da Dio, e perciò non ha alcun senso neanche oggi.
■ 2. Il parlare miracolosamente «in lingue» vere ma non imparate, come segno per gli Ebrei, è lentamente cessato nel primo secolo e non ha più alcun motivo d'esistere e, difatti, non esiste.
Perciò, molti ci domandano stupefatti: Allora come si spiega che tutti i pentecostali parlano ancora in lingue? E come si spiega che, tante volte, ne traggono anche dei risultati positivi, quali una gioia e un coraggio altrimenti assenti?
La prima cosa da dire è che, avendo la certezza che «le lingue» della Bibbia non esistono più e che non dobbiamo né cercare, né permettere nelle nostre chiese niente che pretende d'essere la ripetizione di questi doni, per noi il problema è chiuso. Se alcuni pochi o tanti non importa, ancora credono di parlare in lingue, resta a loro spiegare come mai lo fanno quando la Bibbia non lo giustifica. E resta a loro anche di cercare di capire cosa stia succedendo in mezzo a loro, o da dove provenga una volta convinti che non è da Dio.
Ma, d'altra parte, forse abbiamo il dovere d'offrire una risposta senza pretendere che essa sia condivisa dai fratelli pentecostali.
In primo luogo, se effettivamente esisteva, a Corinto, fra i credenti sinceri ma sbagliati, un «parlare» che non era affatto parlare un linguaggio vero, ma solamente un insieme di suoni, provocato dal desiderio di farlo, o d'imitare altri, o d'andare oltre i limiti della conoscenza umana, possiamo credere senz'altro che Io stesso fenomeno possa esistere oggi, e che probabilmente esistano molti casi, in cui dei sinceri credenti sono convinti, erroneamente, di parlare per lo Spirito Santo, quando parlano con il proprio spirito umano.
Che ciò sia possibile non è affatto sconosciuto neanche agli psicologi; che dei bambini o delle persone in alcune condizioni mentali parlino in un «linguaggio inventato» è possibile. Anzi, è probabile che chiunque lo possa fare, se ripete le stesse condizioni esistenti nelle normali riunioni pentecostali, e cioè: ▪ 1. Una forte carica emotiva che può spingere oltre la ragione. ▪ 2. Un desiderio di fare ciò che altre persone rispettate fanno già, e che si è più volte sentito fare. ▪ 3. Una ricerca cosciente di svuotare la mente e di lasciare incontrollate la lingua e le corde vocali. ▪ 1. La ripetizione meccanica di sillabe o di parole.
Una volta provata l'esperienza, può essere ripetuta anche senza stare necessariamente in mezzo a una riunione emotiva o senza ripetere coscientemente sillabe o parole per caricarsi.
E gli effetti positivi? Non vi è dubbio che siamo tutti fortemente condizionati e inibiti dalle persone e dalle circostanze e che abbiamo imparato a reprimere le nostre emozioni e le nostre reazioni, per paura, per timidezza, per abitudine. Qualsiasi esperienza «liberatrice», in cui siamo incoraggiati a lasciarci andare e siamo capaci di farlo o piangendo o ridendo o gridando (e alcune «cure» psicologiche si basano su questo metodo), ci fa sentire molto bene. Vedere un film che fa ridere o piangere, seguire una partita, in cui perdiamo un po' il contegno e ridiamo da matti, ha delle conseguenze benefiche e ci fa sentire meglio psicologicamente e anche fisicamente.
Se un credente fa quest'esperienza non guardando un film o una partita, ma mentre partecipa a una riunione cristiana, in cui pensa a Dio e all'opera di Cristo, in cui canta e loda il Signore, allora «uscire dal guscio» o «rompere gli argini» potrebbe aumentare di molto lo stato di benessere (perfino la salute) e dare, più coraggio nella testimonianza, eccetera.
Allo stesso tempo, bisogna dire che se una «uscita» abbastanza delimitata dal comportamento normale può essere positiva per alcuni, l'andare oltre diventa sempre pericoloso. Le riunioni pentecostali, in cui la gente si lascia andare fino a entrare in «trance», a cascare per terra, ad avere tremiti, eccetera, sono un pericolo per la psiche e per il fisico. Infatti spesso portano in seguito gli individui a cadere in periodi di depressione. E il pericolo è tanto più grande, se le emozioni sono giustificate come manifestazioni della potenza di Dio.
D'altra parte, diciamo subito che, per rompere gli argini della nostra timidezza, della paura o dell'abitudine non è affatto necessario avere un esperienza pentecostale o «parlare in lingue». Ogni credènte, via via che cresce spiritualmente e si lascia guidare e controllare dallo Spirito Santo, sperimenta la stessa «liberazione» in modo più sano e duraturo.
Purtroppo non possiamo fermarci qui per spiegare tutte le esperienze, in cui delle persone credono di parlare in lingue sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. Non bisogna dimenticare neppure che gli stregoni pagani parlano spesso in lingua strana. La stesso accade fra seguaci d'altre religioni o di sette, come ad esempio i Mormoni. Queste persone parlano delle lingue, che possono essere o semplicemente dei suoni inventati, o addirittura delle lingue, umane che essi non hanno studiate. Sono noti, dalle testimonianze di diversi missionari, dei casi in cui persone conosciute come credenti, hanno parlato, come credevano, sotto l'influenza dello Spirito Santo e qualcuno presente ha potuto capire ciò che dicevano, perché parlavano nella loro lingua nativa, e proferivano bestemmie e oscenità.
Anche il libro di Ralph Shallis sulle lingue elenca una decina di casi, in cui dei credenti erano convinti di parlare in «lingue spirituali», ma che, quando la loro esperienza è stata esaminata in profondità da altri credenti dotati di discernimento degli spiriti, sono stati liberati da influenze demoniache e hanno anche perso il «dono» delle lingue.
Ma qualcuno dirà che chi parla in lingue, loda Gesù. Qui possono dire due cose. Una è che nel caso della ragazza indemoniata che seguiva l'apostolo Paolo a Filippi, questa appunto lo seguiva e testimoniava positivamente. Ciononostante, Paolo non glielo permise e sgridò lo spirito. Lo stesso è successo più volte nel ministero di Gesù. La seconda cosa nei casi citati dallo Shallis, spesso lo spirito immondo lodava e professava un «altro Gesù», ingannando così il credente.
Perciò, noi ripetiamo che la Bibbia insegna quanto segue.
■ 1. Parlare in un linguaggio fatto di suoni inintelligibili...: ▪ non edifica nessuno; ▪ è infantile; ▪ significa agire senza la propria intelligenza; ▪ non è un dono di Dio; ▪ può portare a delle emozioni «positive» psicologicamente, ma non spiritualmente; ▪ non può essere «tradotto» in lingua conosciuta e perciò è vietato nella chiesa; ▪ può inconsciamente aprire il credente a influenze demoniache.
■ 2. Parlare in linguaggi umani e correnti, ma mai imparati...: ▪ serviva unicamente di «segno» al popolo ebraico che possedeva le antiche profezie e perciò poteva intelligentemente interpretare il significato del segno; ▪ è cessato, come dono spirituale, nel primo secolo della chiesa; ▪ è ancora praticato in alcune sette e da stregoni, sotto influenza satanica; ▪ deve essere vietato nella chiesa.
9. ATTEGGIAMENTO VERSO I SOSTENITORI DELLA GLOSSOLALIA: Arrivati a questo punto, ci rimangono due problemi: ▪ 1. Quali devono essere i nostri atteggiamenti verso i nostri fratelli pentecostali «classici» o «storici»? ▪ 2. Quali devono essere i nostri atteggiamenti verso i «neopentecostali» (o carismatici)?
Primo, fra i pentecostali classici, dove è predicato fedelmente l'Evangelo di Dio (e ciò non è sempre il caso), noi troveremo dei fratelli cari con cui godere una bellissima comunione, come pure ne troveremo anche altri difficili, incoerenti, eccetera, esattamente come troviamo dei credenti più o meno fedeli in tutte le chiese evangeliche.
In generale, secondo le possibilità, è di benedizione godere della comunione fraterna con questi fratelli, intrattenerci con loro, pregando con loro, eccetera, particolarmente su un piano personale.
Purtroppo, a livello di comunione fra chiese e di collaborazione, è la nostra conclusione che sia noi che loro vivremo più tranquilli, in pace e in amore, se non cercheremo la collaborazione a livello di chiese o d'altre organizzazioni. Spesso le loro convinzioni, a cui tengono così sinceramente e ardentemente e che ovviamente essi hanno tutto il diritto di propagandare liberamente, diventano motivo di discussione inutile e dannosa, quando i credenti delle comunità sono messi insieme. Così, anziché rispettarsi e pregare gli uni per gli altri, spesso si creano incomprensioni e ferite. La Bibbia afferma: «Possono due uomini camminare insieme, se prima non si sono accordati?» (Am 3,3). Anche fra sinceri e veri fratelli, alle volte la coabitazione non è consigliabile. Paolo e Sila partirono nel secondo viaggio missionario, e Barnaba andò da un'altra parte. Era una separazione triste? Sì. Era comunque una soluzione migliore della collaborazione fra due che non la vedevano nello stesso modo? Anche a questa domanda la risposta è «sì».
Verso i neopentecostali (o carismatici), la nostra posizione deve essere diversa. Come ho detto al principio, spesso queste persone, che professano il battesimo nello Spirito, e anche parlano della nuova nascita, allo stesso tempo professano dottrine antibibliche e lavorano coscientemente per raggiungere fra cosiddetti cristiani un'unità che non è affatto biblica. Anzi, a nostro parere, una tale unione non può che portare alla chiesa apostata ed è possibile e probabile che molte persone ignare e sincere contribuiranno alla formazione del regno dell'Anticristo.
Siccome, in generale, fra i neopentecostali vi è poca chiarezza sullo dottrine della divinità di Cristo e sull'ispirazione e l'autorità della Parola di Dio (se non a parole, certo nei fatti), vi sono due grossi pericoli dottrinali.
Un errore è centrare l'insegnamento e la pratica sullo Spirito Santo e non su Cristo, cosicché si prega lo Spirito Santo, si cantano inni di lodi allo Spirito Santo, si cerca la presenza dello Spirito Santo in modo che la Trinità viene, di fatto, negata. (Un po' come i cattolici professano, normalmente, una dottrina ortodossa sulla Trinità, ma poi innalzano Maria e i santi fino al punto di diminuire l'importanza di Cristo).
Il secondo grande errore è che, centrando spesso la propria vita spirituale sullo Spirito Santo, come è manifestato attraverso i doni delle lingue e dell'interpretazione, il frutto di questi doni viene accettato come nuova rivelazione e, in pratica, sostituisce la Parola di Dio come base della fede. Di nuovo, il paragone con la chiesa cattolica e la sua posizione sulla Tradizione è molto simile: Si dice di credere pienamente sia nella Bibbia che nella Tradizione, ma la Tradizione finisce per condizionare e sostituire la Bibbia. Fra i neopentecostali, la stessa cosa avviene per mezzo dei cosiddetti doni carismatici.
Perciò, secondo la Bibbia, chi professa la falsa dottrina o ha un cammino non conforme alla Parola di Dio, deve essere ripreso quando ciò è possibile, e schivato quando rifiuta la riprensione. Non è giusto avere alcuna collaborazione o comunione con le opere di Satana, anche quando esse sono promosse da persone gentili, educate, pieno di buone intenzioni e che usano, in parte, il nostro stesso vocabolario.
Proprio perché i fautori del movimento carismatico, sia dalla sponda protestante che da quella cattolica, professano che esso sia un mezzo per promuovere l'ecumenismo, noi crediamo che, al di là delle persone sincere o meno che sono coinvolte, noi dobbiamo considerarlo uno dei tanti mezzi satanici per ingannare gli eletti stessi e per unirli nel regno di Satana.
E cosa fare se la glossolalia, o qualche sua influenza, comincia a entrare nelle nostre comunità? Penso che dobbiamo affrontarla e opporci a essa apertamente e rapidamente.
Questo movimento non è partito dallo studio della Bibbia, ma dalle esperienze e, in un modo pericoloso che molti carismatici non vedono, porta in sé sempre il seme del pericolo di dare più importanza alle rivelazioni, ai doni, allo lingue, alle esperienze che non all'autorità assoluta della Parola di Dio.
In secondo luogo, il metodo usato normalmente per provocare la venuta del cosiddetto battesimo dello Spirito Santo, svuotando la mente d'altri pensieri e ripetendo meccanicamente delle frasi pie, potrebbe aprire le persone (e crediamo che abbia aperto molti) a influenze negative psicologicamente e perfino spiritiche.
Il dono, come praticato (e perfino come visto nella prima epistola ai Corinzi) non ha alcuna relazione positiva con la condizione spirituale del credente e con la sua crescita.
Altre volte, e troppo spesso, il ricercare questo cosiddetto dono provoca una pericolosa preoccupazione interiore o porta alla depressione e all'instabilità.
Altre volte, è motivo di posizioni d'orgoglio, opportunamente mascherate da spiritualità, e perciò provoca divisioni e giudizi non spirituali fra credenti. Inganna il credente stesso facendogli credere d'essere forte quando è maggiormente esposto alle cadute.
Personalmente, troviamo umanamente difficile prendere una posizione chiara, esplicita contro questo movimento, in cui sono inclusi molti cari fratelli.
Quando essi, a confronto con le nostre chiare esposizioni bibliche, propongono le loro esperienze, che non sono affatto pronti ad abbandonare, forse ci sentiamo imbarazzati e pronti ad ammettere che potrebbero avere ragione, anche se noi siamo d'avviso diverso.
In fondo, si finisce col dire che forse hanno ragione, forse no, proprio per non correre il rischio di litigare.
Questa è una posizione di debolezza che tradisce il nostro dovere di studiare e insegnare la Bibbia ai credenti che Dio ha affidati alla nostra cura. I pentecostali non hanno alcuna paura o timidezza nell'affermare il loro punto di vista. Noi dobbiamo dire, con altrettanta fermezza, chiarezza e amore il nostro.
Tratto dal sito LUCE BIBBLICA http://www.lucebiblica.altervista.org/Articoli/Glossolalia_problema_MeG.htm
di Tom Jones e Giovambattista Mele
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