Durante l’XI secolo si era manifestata una serie di fenomeni positivi per l’Occidente europeo, che avevano permesso la presa di coscienza di una rinnovata forza: lo slancio demografico, la ritrovata mobilità sociale.
Inoltre le fortunate campagne militari contro i mori in Spagna ed in Sicilia, la riappropriazione dello spazio mediterraneo da parte delle città marinare italiane, provenzali e catalane, erano stati tutti esempi per la futura crociata.
Nonostante ciò non si deve pensare a una pianificazione a tavolino della “crociata” (nome che compare solo dal XIII secolo), poiché sembra che il movimento nacque quasi per caso, con effetti che nessuno poteva all’epoca calcolare. Non esistendo il concetto di “guerra santa” nel Cristianesimo, le spedizioni erano ritenute giuste poiché di difesa e rappresentarono un’originale fusione tra guerra e pellegrinaggio (i crociati avevano infatti gli stessi privilegi spirituali dei pellegrini). La disciplina che più da vicino fece da modello alla “crociata” fu quella stabilita da papa Alessandro II per la spedizione in Aragona contro i mori del 1063. In quell’occasione il pontefice aveva concesso ai cristiani di portare in battaglia il vessillo di San Pietro, una bandiera con carattere sia di benedizione sacrale che di investitura giuridica feudale. Con la vittoria e le gloriose cronache dell’epoca, arricchite di miracoli e di gesta epica in uno scontro tra “Vizio” e “Virtù”, si iniziò a concepire la guerra agli “infedeli” come spiritualmente meritoria.
La zona di Gerusalemme era finita oggetto della lotta fra Bizantini, Arabi e Turchi. Sotto la sovranità araba non si erano verificati incidenti di sorta fra musulmani e cristiani (nasrani in arabo), a parte sotto il sovrano fatimide d’Egitto al-Hakim, all’inizio del XI secolo, sebbene i cristiani fossero ridotti in una posizione servile. La città di Antiochia era caduta nel 1085 grazie al vittorioso assedio dei turchi selgiuchidi. La componente selgiuchide che si sarebbe autodefinita “di Rūm”, cioè “romea”, “dell’area bizantina”, era arrivata a insediarsi a Nicea, attuale Iznik. Praticamente l’Asia minore era stata conquistata. Di fronte a questo crescente pericolo proveniente da oriente, l’Impero bizantino fu indotto a rivolgersi per cercare aiuto all’Occidente latino. È ciò che per l’appunto fece l’imperatore bizantino Alessio I Comneno.
I turchi selgiuchidi avevano preso a vessare le carovane dei pellegrini cristiani d’oriente e d’occidente che da secoli si recavano a Gerusalemme in pellegrinaggio. Si parlò di rapine, sequestri, uccisioni, stupri di pellegrini che iniziarono così a viaggiare sotto la scorta di piccoli gruppi armati, ma al di là di questo, era la montante potenza selgiuchide a terrorizzare il mondo cristiano che, dopo la disastrosa disfatta di Romano IV Diogene a Manzicerta, temeva che si stesse profilando un terribile cataclisma anche per la Cristianità latina e che l’Impero selgiuchide avrebbe potuto conseguire la conquista islamica dell’Europa.
L’imperatore bizantino Alessio Comneno chiese aiuto al conte di Fiandra tramite una lettera. Questa circostanza tornò a favore di Papa Urbano II, il quale, secondo il cronista Bernoldo di Costanza, avrebbe fatto riferimento all’aiuto da portare ai Cristiani d’Oriente nel concilio di Piacenza, precedente l’accorato appello finale di Clermont.
Ricordiamo che nel 1054 la tradizionale estraneità tra la Chiesa occidentale che faceva riferimento al Papa e la Chiesa orientale che faceva riferimento al Patriarca di Costantinopoli era sfociata in uno scisma. Il motivo è la disputa del “filioque”, in realtà è un braccio di ferro fra i due vescovi che si contendono il primato.
Quindi, anche se fu l’imperatore bizantino a domandare aiuto, l’appello di Urbano II fu fatto ufficialmente per salvare i Cristiani d’Oriente dalla loro situazione drammatica. Quando Papa Urbano II indisse un pellegrinaggio armato al concilio di Clermont (1095) nessuno pronunciò la parola “crociata”. Lo scopo era l’arrivo di una massa di pellegrini nei luoghi santi della Cristianità.
Nel progetto di Papa Urbano II, aiutando Alessio Comneno a ristabilire la sua autorità, sul lungo periodo, avrebbe posto le basi per una riconciliazione e riunificazione tra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente nella lotta contro gli infedeli.
Il tentativo fallì sin dalla Prima crociata. Innanzitutto, la prima risposta da parte dei fedeli la si ebbe con la cosiddetta Crociata dei Pezzenti: spedizione assolutamente improvvisata da parte di contadini provenienti soprattutto dall’Auvergne, animati da predicatori come Pietro l’eremita. A queste spedizioni fecero da preludio numerosi eccidi di israeliti, che si cercò di convertire a forza al Cristianesimo, anche se non è escluso che si intendesse in tal modo evitare la restituzioni di debiti contratti in precedenza.
Vale comunque la pena ricordare che a tali azioni furono estranei l’aristocrazia e il clero che, anzi, spesso offrì rifugio agli ebrei perseguitati. Data l’impreparazione militare di questi volontari, questi – giunti dopo innumerevoli peripezie in Anatolia – si gettarono a corpo morto in battaglia sui Turchi Selgiuchidi presso Nicea e vennero sterminati.
Con la crociata detta “dei nobili”, guidata fa gli altri da Goffredo di Buglione, i territori che si era promesso di restituire ad Alessio Comneno non vennero mai restituiti. Fin dal loro arrivo a Gerusalemme nel 1099, dopo aver proceduto ad un massacro dei musulmani che abitavano la città, i Crociati si ritagliarono uno stato, di cui venne eletto capo Goffredo di Buglione, probabilmente a causa del suo trascurabile rilievo rispetto a Raimondo IV di Tolosa.
In questo contesto papa Urbano II fece l’appello di Clermont (1095), dove sollecitò la nobiltà francese ad accorrere in aiuto dell’Impero bizantino minacciato dai turchi selgiuchidi. Più che agli interessi solidali con la controparte orientale, dovette pesare sulla decisione del papa la volontà di normalizzare la vita della nobiltà europea dandole un nuovo obiettivo, dopo i duri scontri col papato stesso durante la lotta per le investiture e le guerre feudali. La nobiltà si era infatti ampiamente compromessa appoggiando i nemici della riforma gregoriana e si stava impoverendo, almeno al livello dei piccoli feudi, per via della crescita delle autonomia cittadine Comunali. Inoltre la non-divisibilità dei feudi tra gli eredi lasciava una larga fetta di nobili armati che potevano cercare fortuna solo con le armi o con la carriera ecclesiastica.
Con la spedizione i nobili avrebbero temporaneamente alleggerito l’Europa dalla loro presenza per certi versi scomoda, ed avrebbe permesso loro di conseguire un buon soldo e bottino per rimettere in sesto l’economia.
È importante sottolineare come all’epoca non si parlasse ancora come fine ultimo di riconquista di Gerusalemme e della Terra santa. I luoghi sacri legati al cristianesimo erano in fatti in genere protetti dagli stessi musulmani e i pellegrinaggi consentiti (sebbene necessitassero il pagamento di salvacondotti), anche se nel secolo scorso c’erano stati alcuni gravi episodi che avevano allarmato la Cristianità: tra 1008 e 1009 il califfo egiziano al-Hakim (semi-divinizzato dai Drusi, considerati eretici dai musulmani) aveva fatto distruggere la basilica del Santo Sepolcro e pochi decenni dopo in Palestina si erano insediati i turchi Selgiuchidi, di recente conversione all’Islam, che oltre ad aver infastidito ed assaltato diverse carovane di pellegrini cristiani occidentali, costituivano una concreta minaccia per Costantinopoli.
In questo contesto la volontà del papa aveva a cuore una serie di obiettivi, non chiaramente definiti, che nella migliore delle ipotesi sarebbero stati riconducibili all’aiuto da prestare all’Impero bizantino dopo la disastrosa sconfitta di Manzikert (1071) ad opera del sultano selgiuchide Alp Arslan, alla ricucitura dello scisma fra Cristianità greca e Cristianità latina e alla riconquista di Gerusalemme. Lo stesso imperatore aveva fatto un’offerta di ingaggio di mercenari a Piacenza, nella primavera del 1095, dove il papa si trovava a un concilio che avrebbe preceduto di poco quello di Clermont. Il papa forzò un po’ i termini, considerando l’ingaggio come una richiesta di aiuto, incanalandola in tutta la serie di obiettivi, per l’Europa occidentale e per il mondo orientale, elencati poco sopra.
La spedizione inoltre diventava sostitutiva di ogni altra penitenza in remissione dei peccati confessati, come avvenne in Spagna (Reconquista spagnola), e fu chiarito che chi fosse caduto in battaglia avrebbe guadagnato senz’altro il Premio Celeste.
Secondo alcuni storici quindi, l’intenzione dei civili senz’armi e dei soldati e cavalieri che li accompagnarono durante il viaggio della prima crociata (1096-1099) doveva essere eminentemente pia e usuale all’epoca: il pellegrinaggio a Gerusalemme. La croce rossa che i pellegrini portavano sul mantello stava a significare che erano pronti a versare il loro sangue per un pellegrinaggio redentore: era assicurata la remissione di tutti i peccati a coloro che sarebbero morti sulla strada per Gerusalemme. Fu però un “pellegrinaggio armato”.
Il Papa, per realizzare l’impresa di riconquista della Siria-Palestina, tenne un discorso decisamente a tinte forti, elencando i crimini perpetrati ai danni dei cristiani dagli invasori musulmani. Roberto il Monaco così riporta il discorso di Urbano II:
« I Turchi hanno distrutto completamente alcune chiese di Dio e ne hanno trasformate altre a uso del loro culto. Insozzano gli altari con le loro porcherie; circoncidono i cristiani macchiando gli altari col sangue della circoncisione, oppure lo gettano nel fonte battesimale. Si compiacciono di uccidere il prossimo squarciandogli il ventre, estraendone gli intestini, che legano a un palo. Poi, frustandole, fanno ruotare le vittime attorno al palo finché, fuoriuscendo tutte le viscere, non cadono morte a terra. Altre le legano al palo e le colpiscono scoccando frecce; ad altri ancora gli tirano il collo per vedere se riescono a decapitarli con un solo colpo di spada. E che dire degli orripilanti stupri ai danni delle donne? » | |
(Roberto il Monaco, Historia Hierosolymitana)
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Nella visione di Urbano II, i soldati non avrebbero dovuto fungere da scorta per i pellegrini, ma essere pellegrini essi stessi. Pertanto i privilegi e le ricompense spirituali che il pellegrinaggio al Santo Sepolcro garantiva furono accordati anche ai partecipanti alla spedizione.
L’appello del papa venne raccolto da una serie di grandi feudatari europei, che tra 1095 e 1096 si apprestarono a partire con tutto il loro seguito. La notizia si sparse intanto con stupefacente rapidità e suscitò entusiasmi anche nei ceti più popolari, che il papa non solo non aveva previsto, ma che inizialmente non dovette nemmeno gradire. Il Papa cercò infatti di dissuadere con ogni mezzo i chierici, le donne, i monaci, i poveri e gli ammalati dal mettersi in viaggio. Ma l’attrazione esercitata da Gerusalemme fu tale che egli non riuscì a impedire che partissero anche laici inermi. Si trattò soprattutto di gente che ascoltava i sermoni di alcuni zelanti predicatori, e anche di fanatici, di cui non si conosce bene il messaggio.
L’Europa dell’epoca era attraversata da predicatori itineranti e da agitatori religiosi (come i patarini) che avevano infiammato i ceti subalterni durante i decenni della riforma contro il clero simoniaco e concubinario. Con la vittoria della fazione riformatrice e la stabilizzazione della situazione questi predicatori-agitatori erano diventati scomodi per il clero, anche perché essi erano rimasti delusi dagli esiti della riforma stessa, che aveva mancato di far nascere la Chiesa di “poveri e uguali” sul modello della supposta Chiesa delle origini.
È probabile quindi che Urbano pensasse solo a una spedizione attuata dai signori feudali dell’Europa meridionale e continentale ma l’entusiasmo suscitato nell’opinione pubblica fu tale che a muoversi per prime furono proprio le componenti di pauperes, raccoltesi in modo spontaneo e informale intorno ad alcuni di questi predicatori (come Pietro l’Eremita) e ad alcuni cavalieri (come Gualtieri Senza Averi). Essi vedevano nella spedizione un ritorno alla Casa del Padre, alla Gerusalemme celeste.
Queste schiere di poveri pellegrini erano armati sommariamente e privi di alcuna disciplina militare. Essi partirono tumultuosamente verso l’Oriente macchiandosi lungo la strada di delitti comuni e di stragi dirette, soprattutto contro le comunità ebraiche insediate lungo il Reno e il Danubio.
Pietro l’Eremita (Pietro d’Amiens) era un predicatore popolare che, per il fatto di girare coperto di stracci e in sella a un umile asino, s’era guadagnato la fama di “eremita”. Giunse il 12 aprile 1096, dopo aver percorso le terre centrali del Berry, il territorio di Orléans e di Chartres, la Normandia, il territorio di Beauvais, la Piccardia, la Champagne, la valle della Mosella e infine la Renania. Era un personaggio non inquadrato nel sistema ecclesiastico, ma dotato di grande carisma trascinatore ed esercitava un’influenza enorme sulla folla.
Con un grosso seguito di francesi e preceduto dal suo motto tardo-latino Deus le volt (”Dio lo vuole”), Pietro giunse a Colonia e si unì a Gualtiero Senza Averi, alla testa di un gruppo alquanto più esiguo di contadini e di cavalieri senza risorse economiche, partendo subito dopo Pasqua alla volta di Costantinopoli.
Nel marzo 1096, assai prima della data che il papa aveva previsto, gente d’ogni risma – poveri, preti, monaci, donne, qualche soldato, ma pochissimi signori e principi – si mise agli ordini di Pietro e si pose in viaggio. Gualtieri, giunto in Ungheria (di recentissima cristianizzazione), ricevette il permesso di transito da re Koloman, entrando in conflitto tuttavia con la locale popolazione a Semlin, ultima piazzaforte ungherese prima di entrare nel territorio imperiale bizantino. Giunto a Niš il 18 agosto, Gualtieri proseguì nel suo viaggio verso Sofia, Filippopoli e Adrianopoli, per giungere infine a Costantinopoli il 20 luglio sotto stringente scorta dei Peceneghi (che fungevano da polizia militare bizantina).
Le truppe di Pietro l’Eremita raggiunsero a loro volta Semlin, presero d’assalto la città e vi massacrarono 4.000 correligionari ungheresi, secondo una testimonianza a causa delle vesti appartenenti a pellegrini al seguito di Gualtieri e che erano stati uccisi mentre s’abbandonavano a razzie e violenze varie. Fu evidente infatti, in entrambe queste schiere, la totale inadeguatezza dell’apparato logistico predisposto: la mancanza di vettovagliamenti portò pertanto gli uomini di Gualtieri e di Pietro a razziare, armi in pugno, quelle contrade, ottenendone un reazione logica e non meno violenta. Per buona misura, gli uomini di Pietro investirono e saccheggiarono anche Belgrado, abbandonata dai suoi abitanti che trovarono rifugio in territorio bizantino, sull’altra sponda della Save.
Questa accozzaglia si presentò infine davanti a Costantinopoli il l° agosto 1096, quindici giorni prima della data fissata per la partenza del Legato Pontificio Le Puy. Nella capitale bizantina, l’imperatore Alessio I consigliò loro dapprima di aspettare la crociata “dei baroni”, ma di fronte ai loro eccessi, fece loro attraversare il Bosforo il 6 agosto e assegnò loro la piazzaforte di Kibotos (Civitot).
In settembre essi razziarono i dintorni di Nicea e uccisero non pochi dei suoi abitanti (esclusivamente cristiani) e una banda, condotta da un nobile italiano di nome Rinaldo, riuscì a impadronirsi del castello di Xerigordon. Il 29 settembre, un contingente inviato dal sultano Qilij Arslan riprese tuttavia il controllo di Civitot.
Il 21 ottobre 1096, stanchi di attendere, i seguaci di Pietro si diressero di nuovo alla volta di Nicea, ma vennero sterminati non appena usciti dal campo di Civitot. Gualtieri-senza-averi, il conte di Hugues di Tubingue e Gautiero di Teck persero la vita in questo scontro. Su 25.000 uomini, solo 3.000 riuscirono a riguadagnare Costantinopoli. Si amalgamarono a quel punto con le forze condotte dai baroni, dando vita ai terribili Tafur.
Un’altra “crociata popolare” fu la cosiddetta “crociata tedesca”: seguendo l’appello pontificio alla crociata, alcuni signori tedeschi, primi fra tutti un certo Volkmar con circa 10 mila seguaci e un discepolo di Pietro l’Eremita di nome Gottschalk (con più di 10 mila uomini), partirono verso le aree balcaniche per seguire lo stesso itinerario terrestre prescelto da Pietro e da Gualtiero prima di loro, mentre il conte Emich von Leiningen (noto per aver espresso una certa predisposizione agli atti di violento brigantaggio) raccoglieva in Renania adesioni per il medesimo fine.
Malgrado gli ordini dell’imperatore germanico Enrico IV vietassero di operare alcuna azione ostile nei confronti delle comunità ebraiche (considerate però infedeli alla pari dei musulmani), l’esercito di Emich si abbandonò a un vero e proprio pogrom, forse per evitare di restituire gli interessi concordati per alcuni prestiti da lui sollecitati e ottenuti dalle comunità israelitiche. Vale la pena rammentare che in quel periodo era assolutamente vietato richiedere interessi per prestiti di denaro e come anche il minimo tasso preteso fosse considerato usura, in grado di comportare automaticamente la scomunica a carico del prestatore e l’interdizione per la città che si fosse dedicata al cosiddetto “commercio del denaro”.
Tra il 20 e il 25 maggio a Worms il massacro della locale comunità israelitica fu portato a compimento, malgrado la difesa esercitata dalla nobiltà e del clero in favore degli ebrei stessi. Altrettanto avvenne poco dopo a Magonza, dove circa un migliaio di ebrei furono trucidati. Meno drammatica fu invece l’aggressione a Colonia in quanto gli ebrei, allertati dalle notizie ricevute, avevano provveduto a nascondersi. Una coda persecutoria si registrò peraltro a Treviri, Metz, Neuss, Wevelinghofen, Eller e Xanten.
Volkmar cercò di emulare Emich a Praga, ma in Ungheria egli si trovò a subire la durissima reazione di re Colomanno d’Ungheria, che affrontò, distrusse e disperse le forze tedesche che avevano osato percorrere in armi il suo territorio e tentato di colpire i “suoi” ebrei. Gottschalk intanto si era spostato a Ratisbona per effettuarvi la sua personale strage di “infedeli” e, dopo aver cercato di resistere all’ordine regio di disarmo dei suoi uomini, assistette impotente al massacro che ne seguì.
Emich intanto, di fronte al rifiuto del permesso di transito decretato per le sue truppe da Re Colomanno, impegnò con le truppe del sovrano ungherese un duro combattimento ma dovette anch’egli subire una dura sconfitta.
La “crociata dei nobili”, che qualche storico definisce anche “crociata dei baroni” (anche se nessun barone ne fece parte), riuscì a stabilire gli “Stati Crociati” di Edessa, Antiochia, Gerusalemme e Tripoli in Palestina e Siria.
All’impresa, affidata dal papa alla guida spirituale di Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy, aderirono alcuni nomi famosi dell’aristocrazia feudale europea:
* Ugo, francese, futuro conte di Vermandois (1057-1101), figlio
cadetto di re Enrico I di Francia e fratello minore del re Filippo I;
* Stefano di Blois, francese, cognato di Roberto II, duca di Normandia, per averne sposato la sorella Adele;
* Roberto, fiammingo, conte di Fiandra;
* Roberto II, normanno, duca di Normandia, figlio di Guglielmo il Conquistatore;
* Raimondo di Saint-Gilles, provenzale, quarto conte di Tolosa e marchese di Provenza che guidava il drappello di provenzali;
* Goffredo di Buglione, germanico, duca della Bassa Lorena e, come tale, vassallo dell’Imperatore germanico Enrico IV;
* Baldovino di Boulogne, fratello germano di Goffredo;
* Eustachio III, germanico, conte di Boulogne e fratello di Goffredo;
* Boemondo I d’Antiochia, normanno-italico, figlio di Roberto il Guiscardo.
A questi e altri nobili vanno sommati i rispettivi seguiti di vassalli e subordinati; inoltre tra le file della spedizione “dei nobili” viaggiavano anche dei comuni pellegrini inermi.
Ugo di Vermandois partì verso il 15 agosto e, non senza vanità, scrisse all’imperatore Alessio I di preparargli un’accoglienza degna di lui. Si imbarcò a Bari alla volta di Durazzo, per raggiungere Costantinopoli percorrendo l’antica via Egnatia, ma le navi incapparono in una burrasca e si dispersero. Raccolto da Alessio I, fu considerato un ospite, ma posto sotto attenta anche se discreta sorveglianza.
Goffredo di Buglione, che aveva seguito la via di Pietro l’Eremita, fu il secondo ad arrivare. Aveva attraversato l’Ungheria, che dopo i primi “passaggi” era già in allarme, e per tutto il tempo fu obbligato a lasciare in ostaggio suo fratello Baldovino. Giunto a Costantinopoli si accampò sotto le mura. Nacque una certa ostilità fra i suoi e gli uomini dell’imperatore bizantino, che era accusato di tenere prigioniero Ugo.
Boemondo di Taranto arrivò in aprile. Ostile segretamente ad Alessio I, si era fatto crociato, «per opera dello Spirito Santo» dicono i testi, quando si stavano avvicinando i crociati normanni di Roberto. Non era stato solo per devozione: Boemondo era un uomo forte, astuto, ambizioso e frustrato: suo padre, Roberto il Guiscardo, dopo essersi risposato, gli aveva preferito il fratellastro, Ruggero Borsa. Ambiva ad avere una sua signoria a scapito dell’Imperatore bizantino, sul quale dodici anni prima aveva già riportato una vittoria. Fine conoscitore della mentalità bizantina e musulmana e dei loro metodi, egli sapeva di essere indispensabile. Per rassicurare il diffidente Alessio I, Boemondo evitò che le sue truppe operassero il minimo saccheggio.
Raimondo di Saint-Gilles era uno dei più potenti signori. Aveva 55 anni e possedeva una dozzina di contee; può darsi che avesse partecipato alla Reconquista. Già prima del Concilio di Clermont, il papa vide probabilmente in lui il più indicato capo militare della crociata, anche se non procedette mai alla designazione di un comandante laico, limitandosi a quella di una guida spirituale, nella persona del suo Legato Pontificio, il vescovo Ademaro Le Puy. In autunno, dopo aver lasciato al figlio il governo delle terre, il conte partì insieme con Ademaro, passando per l’Italia settentrionale e l’inospitale costa dalmata. Giunto nelle terre dell’impero, fu scortato dalle truppe peceneghe, che fungevano da polizia militare bizantina e lo misero sotto sorveglianza.
Roberto di Normandia, Roberto di Fiandra e Stefano di Blois lasciarono le loro terre nell’autunno del 1096. Passando per Roma, Bari e per la via Egnatia, arrivarono a Costantinopoli nell’aprile-maggio del 1097. A ognuno l’Imperatore bizantino Alessio richiese nel 1096 a Costantinopoli un giuramento di vassallaggio che li impegnava a restituire all’Impero bizantino gli eventuali frutti dell’impresa.
Goffredo compì alcuni saccheggi in risposta al taglio dei viveri dell’Imperatore, ma alla fine il 20 gennaio 1097 cedette e si sottomise; Boemondo fu ricevuto dall’Imperatore il 10 aprile. Secondo Anna Comnena, Boemondo avrebbe chiesto, in cambio del sostegno militare, il titolo di «Gran Domestico d’Oriente» (comandante generale delle truppe bizantine in Oriente) e una vasta porzione di territorio dietro ad Antiochia. Alessio si sarebbe mostrato reticente, pur non lesinandogli denaro e rifornimenti. Tuttavia, Boemondo gli giurò fedeltà, con la promessa di restituirgli tutti i territori conquistati dai musulmani che fossero stati ripresi sotto il proprio controllo da lui e dagli altri Crociati. Ma suo nipote Tancredi, si rifiutò. Anche Raimondo si rifiutò nettamente di giurare fedeltà affermando di essere pronto a riconoscere come suo signore solo Colui per il quale aveva abbandonato patria e beni. Si arrivò ad un compromesso in base al quale Raimondo giurò che non avrebbe attentato all’onore e alla vita dell’imperatore.
Infine Roberto di Normandia, Stefano di Blois e Roberto di Fiandra non si mostrarono riluttanti a giurare fedeltà all’Imperatore.
Tra 1096 e 1097 dunque tutte le truppe erano convogliate a Costantinopoli e non era ancora chiaro quale sarebbe stato lo scopo della missione: la riconquista dell’Anatolia, la presa dei porti della Siria e, nella migliore delle ipotesi, l’arrivo fino alla Palestina. A spingere verso una conquista vera e propria di Gerusalemme, idea che dovette maturare gradualmente, furono forse anche i “poveri pellegrini” che si erano uniti alla marcia dei nobili e che davano al loro viaggio un carattere apocalittico.
In Anatolia le truppe barionali e i pellegrini marciarono in colonne che a tratti si riunivano. Sconfissero ripetutamente le truppe dei turchi selgiuchidi, che evidentemente dovevano aver sottovalutato la pericolosità di questi nuovi arrivati, giunti in piena estate senza la minima cognizione climatologica e geografica della regione. Agli occhi dei signori locali la marcia sotto il sole cocente della pianura anatolica doveva essere sembrata una pazzia, per questo sottovalutata: l’elemento sorpresa fu certamente una delle carte che aiutarono la vittoria crociata.
Il 21 maggio 1097 i crociati sconfissero Qilij Arslan ibn Sulayman, conquistando la sua capitale nell’assedio di Nicea. A Dorileo (Eskişehir) e a Heraclea (Ereğli) i crociati colsero ulteriori vittorie. Penetrarono poi in Siria con il grosse delle truppe, puntando su Tarso e le Porte Cilicie, mentre un distaccamento guidato da Baldovino e da Tancredi, nipote di Boemondo, si diresse verso Edessa, governata dall’armeno T’oros (Theodorus). Questi accolse Baldovino e, non avendo eredi, addirittura lo adottò, ma nel marzo 1098 una congiura, ispirata forse dallo stesso Baldovino, lo portò a morte violenta. Tradendo il suo impegno di vassallatico, Baldovino non restituì la città ad Alessio I ma elesse la città e il suo territorio a sua personale Contea.
Il grosso dell’esercito crociato poneva intanto Antiochia sotto assedio e attaccava i locali contingenti selgiuchidi, catturando la città sette mesi dopo, grazie a Boemondo ed al tradimento d’un armeno-musulmano. Boemondo sgominò poi le forze inviate dall’atabeg di Mossul e massacrò tutti i turchi della città conquistata, salvo un gruppetto che scampò nella cittadella (estate 1098).
Anche Boemondo violò il suo giuramento di vassallatico all’Imperatore, adducendo come giustificazione il preteso (ma inesistente) infido atteggiamento bizantino, cosicché la città di Antiochia e il suo contado furono da lui erette a proprio principato. Alla morte, il 1 agosto 1098, di Ademaro di Le Puy, massimo tramite con l’Imperatore bizantino e attivo fautore di una corretta politica fra cristiani di rito greco e latino, seguì la cattura da parte del corpo principale dei crociati di Maʿarrat al-Nuʿmān (11-12 dicembre) con l’eccidio totale della popolazione musulmana.
Le conquiste furono repentine anche perché seppero (inconsciamente) sfruttare le rivalità e ostilità tra i vari potentati musulmani della zona: infatti nel Vicino Oriente correva il confine indeterminato tra il califfato ismailita del Cairo e quello sunnita di Baghdad; inoltre gli emirati di Anatolia e di Siria erano ostili tra loro.
Oltre all’elemento sorpresa giocò a favore dei crociati anche la mancanza di una tattica unitaria, senza un chiaro obiettivo: i musulmani erano infatti abituati a rispondere alle periodiche offensive dell’esercito bizantino e non sapevano come comportarsi con questi gruppi indisciplinati di cristiani venuti da Occidente. Di fatto si stava assistendo a un fenomeno del tutto nuovo: un pellegrinaggio armato verso Gerusalemme.
Il 13 gennaio 1099 Raimondo di Tolosa si diresse verso Gerusalemme e attaccò Bostrys, Byblos, Beirut, Sidone, Tiro, Acri, Haifa, il Monte Carmelo, Cesarea, Ramla (antico capoluogo del governatorato islamico fin dall’età califfale omayyade) che fu sgomberata da quasi tutta la popolazione musulmana e, infine, Betlemme.
Il 7 giugno il conte iniziò l’assedio di Gerusalemme, in quel momento sotto il controllo del fatimide Iftikhār al-Dawla. I crociati erano ormai induriti dal viaggio, inferociti dalle privazioni e in preda a un entusiasmo fanatico che si rivelò positivo sotto il profilo militare ma negativo sotto quello morale.
Il 15 luglio la conquista della Città Santa fu realizzata grazie ad alcune torri d’assedio costruite col legname ottenuto dallo smantellamento delle navi dei Crociati genovesi di Guglielmo Embriaco, Goffredo di Buglione entrò fra i primissimi nella città coi suoi Lotaringi.
La guarnigione fatimide si rifugiò nella cittadella (da cui poté uscire sana e salva poco più tardi, dopo aver pagato un fortissimo riscatto) mentre tutti gli altri musulmani, senza eccezione alcuna di sesso e d’età, furono massacrati insieme agli ebrei della città, inutilmente ammassatisi nella sinagoga. Un analogo trattamento sarebbe forse toccato anche ai cristiani orientali, evacuati preventivamente dal governatore musulmano per paura di tradimenti, che i crociati probabilmente non avrebbero nemmeno saputo riconoscere.
La città fu poi ripopolata dai cristiano-orientali e dai corregionali siriani e armeni, mentre a musulmani ed ebrei fu proibito di soggiornarvi.
Conquistata Gerusalemme, i crociati negli anni successivi rafforzarono la propria posizione conquistando l’area circostante la città, fino a controllare una zona che andava dal Mar di Levante al Mar Rosso, al corso del Giordano alla Siria. Tutta la regione venne organizzata con il sistema del feudalesimo, con alcuni principati indipendenti tra loro (contea di Edessa, principato di Antiochia, contea di Tripoli, principato di Tiberiade e Oltregiordano, contea di Giaffa e di Ascalona) ed alcuni feudi minori ad essi sottomessi. Sul piano formale ciascuno di questi Stati accettava la superiorità di un sovrano che teneva corte a Gerusalemme.
Giuridicamente parlando la situazione del Regno di Gerusalemme era piuttosto spinosa: formalmente, secondo il diritto riconosciuto dai cristiani, i territori appartenevano all’imperatore bizantino, ma egli non era in buoni rapporti con i crociati ed era inoltre uno scismatico; si pensò allora di offrire la corona al papa, che avrebbe potuto proclamarsi signore feudale di quelle terre, come aveva fatto per l’Inghilterra e per la Sicilia, ma un’azione del genere avrebbe sicuramente peggiorato ulteriormente le già tese relazioni col basileus. Si decise allora di offrire la corona a uno dei crociati che avevano partecipato alla spedizione.
La corona fu offerta a Raimondo – i cui domini costituivano uno dei tre massimi feudi di Francia col ducato d’Aquitania e il ducato di Normandia – ma egli la rifiutò per il desiderio dei suoi guerrieri di tornare al più presto in patria avendo assolto al votum crucis crociato. Inoltre l’energico Raimondo aveva subito il veto dei normanni. Per accordare tutti era chiaro che si sarebbe dovuto scegliere una personalità non di spicco e si ripiegò allora su Goffredo da Buglione, che i cronisti dell’epoca ci ritraggono come valoroso ma anche tormentato, ripiegato su sé stesso. Egli rifiutò di assumere un titolo di “re” di un territorio dove Cristo aveva conosciuto il supplizio e la morte, accettando invece la titolatura più modesta di Advocatus Sancti Sepulchri (Difensore [laico] del Santo Sepolcro), dando così vita al terzo e più prestigioso Stato crociato di Terra Santa. Advocatus era un titolo che un laico prendeva nella protezione di beni episcopali, per cui la scelta sembrava sottintendere l’appartenenza sostanziale della Terrasanta alla Chiesa di Roma.
Goffredo si batté ancora valorosamente nell’estate del 1099, durante le conquiste del porto di Giaffa e di Ascalona, ma perì nel 1100 a Gerusalemme. Suo fratello Baldovino non perse tempo: meno tormentato spiritualmente di Goffredo e più energico, scese dal suo feudo di Edessa e si fece incoronare re di Gerusalemme senza gli scrupoli dimostrati dal fratello. Fu l’inizio vero e proprio del Regno di Gerusalemme.
L’ultimo Stato crociato a costituirsi in Terra Santa fu quello della Contea di Tripoli. Qui il governo era affidato all’epoca al qadi Fakhr al-Mulk, della tribù dei Banū ʿAmmār, favorevole a un accordo coi Crociati che salvaguardasse la città. Grazie a una flotta genovese, Raimondo strappò Tortosa ai Banū ʿAmmār e pose l’assedio a Tripoli, infliggendo con solo 300 cavalieri un’incredibile rotta ai difensori che, coi loro 3000 uomini, aiutati da altri 4000 soldati provenienti da Damasco e Hims, corroborarono nei musulmani di quella parte di mondo l’idea dell’invincibilità degli uomini venuti dall’Europa. Proprio l’esiguità degli uomini a sua disposizione impedì tuttavia al conte di Tolosa di superare le difese murarie di Tripoli.
A fine 1103, con l’aiuto bizantino, fu completata la costruzione del castello di Monte Pellegrino che servì a stringere d’assedio Tripoli, rifornita però dal mare grazie alla flotta fatimide.
Raimondo morì di lì a poco (1105) in seguito a una ferita fortuitamente procuratasi l’anno prima ed il problema della sua successione si risolse con difficoltà solo più tardi, con l’assunzione del potere da parte del figlio naturale Bertrando.
Fonte: http://www.mondoraro.org
Qui la storia delle altre crociate: http://www.mondoraro.org/category/storia/le-crociate/
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