La lotta contro il peccato: una lotta comune!
È forse comune a tutti la facilità con la quale osserviamo e commentiamo le cadute degli altri. Raramente manifestiamo l'attitudine di apprezzare il bene negli altri e di farne oggetto di elogio e di istruzione per noi stessi. Molto più diffusa la pratica della critica fine a sé stessa, del tipo: "Ma guarda come si comporta quel tale! È sempre il solito". Il problema è che quando questo accade, riduciamo l'impegno nel contrastare il peccato nella nostra vita.
Inoltre, come fratelli e sorelle ci dobbiamo chiedere: come è possibile che ci vediamo, ci salutiamo, stiamo insieme e sembra tutto "normale", poi improvvisamente ci accorgiamo di cadute inaspettate e scandalose nel peccato? Come mai va sempre "tutto bene", e poi vediamo credenti che non frequentano più la chiesa locale, coppie che si separano, stimati fratelli che abbandonano il proprio servizio?
In questo articolo considereremo che la lotta contro il peccato deve essere vissuta dai credenti come una lotta comune, dove non c'è posto per l'orgoglio personale e il disprezzo, piuttosto sono richieste l'attenzione e la collaborazione gli uni per i bisogni degli altri.
Il brano dal quale scaturiscono le nostre considerazioni è quello di Galati 6:1-2:
"Fratelli, se uno viene sorpreso in colpa, voi, che siete spirituali, rialzatelo con spirito di mansuetudine. Bada bene a te stesso, che anche tu non sia tentato. Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo."
Come reagiamo alla cadute degli altri?
Che fare di fronte ad un fratello che è caduto nel peccato?
Qualcuno potrebbe pensare di ignorare il problema, dicendo che non è materia che lo riguarda. Ma qui l'apostolo Paolo, pur invitando ad agire i fratelli spirituali, scrive degli insegnamenti che sono per tutti. Del resto, chi dovrebbe non essere spirituale?
Così come solo uno snaturato potrebbe non curarsi dei suoi fratelli e delle sue sorelle nella carne, non è possibile disinteressarsi di chi con noi è membro della famiglia di Dio, la nostra famiglia spirituale.
Dunque, è doveroso rialzare chi è caduto, e per rialzare il fratello sorpreso in colpa, si deve mostrare mansuetudine.
Questa mansuetudine è motivata dal semplice fatto che chi rialza non si può sentire migliore di chi è rialzato.
Se abbiamo un autentico sentimento di fratellanza, la sconfitta di un altro è anche la nostra, "perché siamo membra gli uni degli altri" (Ef 4:25).
Occorre poi avvicinarsi alla questione ponendo molta attenzione non solo su chi è caduto ma soprattutto su noi stessi, perché potremmo essere tentati: tentati dallo stesso motivo di caduta del fratello, tentati dall'orgoglio di essere stati utili per rialzarlo o tentati da un'altra cosa verso la quale magari nel frattempo ci siamo distratti e abbiamo abbassato la guardia. Può succedere che il considerare il peccato altrui, generi in noi mille pensieri del tipo: "Io non cadrò in quel peccato. Io sono molto più spirituale di lui. Io forse cado in qualche peccato ma non così grave...". L'orgoglio è sempre dietro l'angolo pronto a venire fuori.
Non a caso, in un altro brano che parla di tentazione, l'apostolo Paolo, dopo avere esortato a non seguire il cattivo esempio della maggior parte degli Israeliti nel deserto ammonisce così: "Perciò, chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere" (1Co 10:12).
• Dobbiamo essere dispiaciuti per le cadute altrui, come se fossero le nostre cadute (2Co 2:4).
• Dobbiamo esortare chi è stato sorpreso in colpa affinché abbandoni il suo peccato (1Te 5:14).
• Dobbiamo confortare chi si è rialzato (2Co 2:7-8).
• Infine: dobbiamo fare attenzione a noi stessi (1Ti 4:16), perché non siamo immuni da attacchi.
Ci sono dei particolari pericoli per coloro che si espongono nel servizio, insegnando la Parola agli altri e prendendosi cura della chiesa locale. Giacomo scrive che è bene non essere in molti a fare da maestri, "sapendo che ne subiremo un più severo giudizio" (Gm 3:1).
Paolo ne era consapevole al punto da affermare: "...tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato" (1Co 9:27).
Di conseguenza esortava così gli anziani della chiesa di Efeso:
"Badate a voi stessi e a tutto il gregge..." (At 20:28) e Timoteo: "Bada a te stesso e all'insegnamento..." (1Ti 4:16).
Notiamo che il Signore richiede la coerenza di un comportamento santo del credente, quale presupposto per poi insegnare e prendersi cura degli altri, altrimenti tutto sarebbe pregiudicato.
Quindi assoluta vigilanza su noi stessi, se vogliamo aiutare gli altri.
Portare i pesi gli uni degli altri
I primi due versetti di Galati 6, comprendono tre ordini. In essi mi pare di vedere un solo filo conduttore che passa per queste fasi:
• soccorso nella caduta,
• vigilanza,
•.prevenzione.
Si potrebbe pensare che Paolo abbia scritto quei tre ordini considerando l'esempio di un esercito in battaglia. Può esserci qualche ferito, perciò ecco che cosa fare nei confronti di chi è caduto (v.1a). Ma anche il soccorritore potrebbe essere in pericolo, quindi egli stesso deve fare molta attenzione (v.1b). Ed ora veniamo al terzo imperativo, al v. 2, una esortazione a portare i pesi gli uni degli altri. Questo fa parte della difesa preventiva che si deve mettere in campo per non trovarsi esposti al fuoco nemico.
Anzitutto, chi deve portare i pesi?
Come per diversi altri doveri che devono essere assolti nella Chiesa, anche "portare i pesi" è per tutti.
Nel Nuovo Testamento ci sono ricchissimi insegnamenti intorno alle cose da fare "gli uni gli altri". Tutti siamo chiamati in causa, esortati a fare qualcosa per gli altri.
Questi doveri reciproci, devono farci sviluppare una mentalità "del dare", non "del ricevere". Salvati per grazia, dovremmo dimostrare nelle relazioni fraterne che abbiamo afferrato la logica della grazia, per cui dovremmo adoperarci in favore degli altri piuttosto che aspettare gli altri agire in favore nostro.
Quindi, il mio esame delle cose dovrebbe sempre farmi domandare:
"Sto portando i pesi degli altri?", e non "Stanno portando i miei pesi?".
Dobbiamo avere un atteggiamento attivo e non passivo.
Ma che cosa sono i pesi?
"Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta" (Eb 12:1).
Anche il peccato, con il senso di colpa che genera, è un peso (Sl 38:4;65:3), ma non tutti i pesi sono peccato.
Ci sono cose non peccaminose in sé ma comunque dannose per la vita cristiana, e una cosa è chiara: anche questi pesi devono essere deposti, gettati via da noi. Se non lo facciamo, la corsa si farà lenta e pesante, e non c'è atleta al mondo che gareggi per vincere e si porti addosso delle zavorre!
Possiamo dire che un peso è qualcuno, qualcosa o una situazione che potrebbe portarci alla caduta quando diventerà superiore alle nostre forze.
I pesi potrebbero essere cose del nostro passato che ci portiamo dietro: "...dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la meta" (Fl 3:13).
Potrebbero essere brutti ricordi che non riusciamo a cancellare, peccati di cui, pur avendo ricevuto il perdono di Dio, avvertiamo ancora la colpa, nostalgia per tempi che consideriamo migliori e non tornano più, tradizioni che si tramandano da generazioni e che non abbiamo mai spezzato.
Poi ci sono i pesi del presente.
Hai mille cose da fare, ti senti in dovere di farle tutte, ma le tue forze fisiche e psicologiche si stanno esaurendo.
Ci sono le paure che un adulto può provare: quella di non arrivare a fine mese con le spese da sostenere, o quella di non essere all'altezza come marito e padre o come moglie e madre, o nel nuovo lavoro carico di responsabilità.
C'è la malattia, che magari sopraggiunge nella tua vita come un fulmine a ciel sereno. Forse devi assistere i genitori anziani che non sono più autonomi, e devi dimenticarti le abitudini di prima per stare con loro.
Gli esempi sono infiniti: hai al tuo fianco un collega che ti propone argomenti che un credente deve rifiutare, ma lo ritrovi puntuale ogni mattina con i soliti discorsi.
Hai iniziato l'università e sei in un'altra città, da solo, ma potresti trovare tanta compagnia se solo esci a divertirti un po'.
Devi scegliere la tua scuola, il tuo lavoro, il compagno/la compagna per la vita, e non sai quale direzione seguire.
Ogni giorno possono esserci dei pesi, e si tratta di situazioni nelle quali è molto probabile che riceveremo delle tentazioni.
Una delle certezze (meravigliosa!) è che "Giorno per giorno porta per noi il nostro peso, il Dio della nostra salvezza" (Sl 68:19).
Ma come fratelli e sorelle, dobbiamo anche noi portare i pesi degli altri che ci sono intorno, magari aiutandoli a gettarli sul Signore.
Solo il Signore Gesù ha potuto portare il peso dei peccati (1P 2:24), ma noi possiamo fare qualcosa per portare gli altri pesi dei nostri fratelli, e così impedire loro di trovarsi a fronteggiare varie occasioni di caduta.
Come si porta un peso? Da dove cominciare?
La prima cosa da fare è quella di infondere fiducia in modo che l'altro sia pronto a condividere il peso.
Questo non succede quando ci proponiamo agli altri con il fucile dei facili giudizi puntato, pronti a criticare aspramente, mentre chi ha un peso difficilmente se lo è cercato da solo, e se anche fosse, lo dovremmo soccorrere comunque. Dobbiamo far capire che, se qualcuno ci confida una sua situazione difficile, non sarà per questo disprezzato, e, se necessario, sapremo tenerci per noi soltanto quanto ci racconta.
Un problema che a volte si verifica tra i credenti è quello di sentirsi in dovere di non mostrare mai la propria debolezza, ingannati dall'idea che ammettere i nostri pesi ci squalifichi spiritualmente. Però in questo modo si diventa ipocriti, mostrando una apparente forza che non abbiamo e, perdendo l'opportunità di essere aiutati, rischiamo ancora di più di scivolare in basso.
Che cosa suggerisco agli altri: fiducia o paura di un giudizio? Dobbiamo avere un sincero interesse per chi ci parla. Del resto, il lasciare a Dio i nostri pesi non avviene proprio quando, pregandolo, ci rendiamo conto del fatto che Dio ci ascolta (Sl 40:1)?
Portare i pesi vuole dire pregare per il fratello o la sorella e pregare insieme a loro.
Vuol dire passare del tempo insieme, e andare oltre il banale "Ciao, come stai?" della domenica mattina.
È passare del tempo con chi è aggravato proprio nell'occasione che per lui o lei è un peso. Portare un peso non vuol dire che l'altro ci lascia tutto quel peso immediatamente, il più delle volte lo dovremo portare con lui, fianco a fianco.
E in questo è fondamentale mettersi alla pari, sullo stesso piano, con l'atteggiamento del Signore Gesù il quale "simpatizza con noi" presentandosi come colui che ha vissuto quello che noi viviamo adesso (Eb 4:15).
Non sempre noi abbiamo già vissuto quanto tocca l'altro, ma possiamo in ogni caso farci sentire vicini con la presenza, evitando sempre di sminuire la portata del peso altrui. Anche nel portare i pesi ci vuole perseveranza, perché se smettiamo di alleggerire qualcuno che stavamo aiutando, potremmo causargli un "contraccolpo" ancora più doloroso del peso stesso da portare!
Ed infine (non certo per importanza), non dimentichiamo che, come per ogni altro impegno nei confronti della fratellanza, anche questo deve essere assolto "con amore" (1Co 16:14), senza il quale "non saremmo nulla" (1Co 13:2).
Mettendoci invece dalla parte di chi ha un peso, credo dovremmo sempre evitare due pericoli che portano a tenere tutto per noi stessi.
Il primo, è l'orgoglio di non volere ammettere che abbiamo un peso, timorosi di fare una brutta figura.
Il secondo, quanto mai attuale, è l'individua-
lismo, cioè il vivere la nostra vita senza interagire con la Chiesa, mortificando in questo modo la natura stessa della Chiesa quale corpo "ben collegato e ben connesso" (Ef 4:16).
Guardiamoci dall'idea che "ciascuno ha la sua vita privata", per cui bisogna salvaguardare sempre la "privacy". Non sto dicendo che si deve "mettere in piazza" tutto di tutti, però ricordiamoci che la Chiesa deve essere "luogo" di condivisione e esperienza di cammino portato avanti insieme.
È solo quando questo accade che si sperimentano la ricchezza della comunione e l'efficacia dell'aiuto che il Signore ci vuole dare proprio attraverso la strumentalità di fratelli e sorelle. Dobbiamo sempre ricordare che nella lotta contro il peccato non combattiamo solo noi: siamo in tanti, e la lotta è comune a tutti.
Il Signore ci indica, sempre, la vita d'uscita!
Mentre scrivevo queste ultime riflessioni, mi sono trovato a percorrere le strade di una grande città, di sera, strade diverse da quelle che percorro di consueto, perché il traffico di quel giorno suggeriva di seguire un altro percorso. Ad un certo punto le indicazioni sono diventate insufficienti per trovare l'uscita giusta, così mi sono trovato a ruotare per tre volte in una rotatoria nella speranza di trovare, prima o poi, la freccia giusta per uscire, quella che magari per una svista mi ero perso.
L'indicazione, ahimé, non c'era.
Raggiunti dalle tentazioni, potremmo rischiare di essere travolti in un vortice sempre più coinvolgente e pericoloso, dove saremmo completamente smarriti. Ma possiamo dire, in conclusione di questi articoli, che il Signore non si è dimenticato di indicarci la via di uscita, e farci ritrovare la strada giusta.
Avere delle convinzioni forti; ricercare l'aiuto che viene dal Signore e dalla comunione con lui, dalla potenza della Sua Parola; seguire le indicazioni pratiche che la Parola ci presenta; condividere questa lotta in modo solidale gli uni con gli altri...questi sono tutti cartelli indicatori che ci faranno trovare la via di uscita.
Che ognuno di noi che legge queste righe possa, oggi e domani, passare di vittoria in vittoria sul peccato, alla gloria di Cristo, il Vincitore.
Bruno Aresca
(Assemblea di Mombercelli)
Fonte: http://www.ilcristiano.it/
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