"Buon Natale", presumibilmente la frase più ricorrente di queste ultime ore. Quella più messaggiata, blogata ed smssata.
Di certo in molte case vi sarà stato un cenone. Fra poco, se non già fatto, verranno offerti i doni ai bambini che frettolosamente ne scartano uno già pensando al prossimo.
Molti giocheranno a carte (mah). Si farà mezzanotte, probabilmente si stapperà una buona bottiglia e ci si scambierà gli auguri di un "buon natale". Qualcuno andrà a messa.
Tutto questo per festeggiare, ce lo ricordano i presepi, la nascita di Gesù.
Personalmente non so se sia giusto o no, scritturalmente valido o meno, festeggiare la nascita di Gesù. Alcune realtà evangeliche lo fanno, non mi scandalizza.
Ma in quante case degli Italiani questa sera si parlerà delle gesta di questo "piccolo" uomo? Si ricorderà che la Parola divenuta carne non ha stimato l'esser divino qualcosa a cui aggrapparsi, anzi è scivolato nell'oblio della carne, e nell'inferno delle tentazioni?
Non solo, chi ricorderà che avendo fatto questa assurda scelta, per il pensiero umano, divenire come una Sua creatura, Egli non ha scelto di divenire un uomo nobile, ricco, un re. Ma un povero falegname?
La storia è ancora incredibile. Si potrebbe ricordare e raccontare le gesta di "quest'uomo" che vince il peccato, rifiuta ogni regno, ogni tentazione.
Si potrebbe ricordare la magnificenza e la potenza che lo accompagnarono nella sua breve vita. Magnificenza da intendersi non in senso umano, il Suo potere, incredibile (sulla materia, sulla vita, su ogni cosa) non lo usò per arricchirsi, sopraffare, vincere i nemici.
Si potrebbe ricordare che quell'uomo, la Parola divenuta carne, si lascio prendere a calci, sputi, si lascio coronare di spine, percuotere, offendere e infine crocifiggere.
Si potrebbe raccontare che risuscitò vincendo la morte.
Si potrebbe gioire, infine, nel ricordare, meditare, riflettere sul fatto che si donò per noi. Ovvero le sue creature che abbiamo potuto vedere il Creatore, l'impronta della Sua essenza, faccia a faccia mentre lo uccidevamo.
Per noi, e mentre gli eravamo nemici, compì ogni cosa affinché tutto fosse compiuto in noi e le nostre imperfezioni, i nostri peccati, le nostre mancanze, il motivo per cui meritavamo di morire, coperte, cancellate.
All'ora sarebbe un momento di gioia, un momento di festa. Altro che scudetto della nostra nazionale, altro che un nuovo anno su cui sperare, piuttosto la Vita Eterna per cui gioire.
Temo, purtroppo, che in poche case questo accadrà. Mi unisco alle loro preghiere per il mondo, quel mondo tanto amato dal Padre da donarci il Suo Unigenito.
Dei doni non servono a dare pace, ma c'è un Dono che può farlo.
Dell'abbondanza non può darci speranza, ma v'è un'Abbondanza che può farlo.
Cristo è il nostro Dono, prendiamolo!! La Grazia è Sovrabbonda, riceviamola!
Alex
Babbo Natale falso ottimista
di Claudio Magris
Se ne avessi il potere, proibirei per legge — quale offesa alla pietas di una tradizione che per generazioni ha fatto sentire all'infanzia quanto vicini e interscambiabili siano il sacro, il favoloso e il familiare — l'immagine e il termine stesso di Babbo Natale. C'è un limite di decenza pure per la secolarizzazione. Trasformare il mistero dell'incarnazione— l'eterno che si fa storia, tempo fugace, carne fragile e peritura — o anche solo l'infantile poesia di Gesù Bambino o dell'angelo che porta i doni nella figura di un vecchio panciuto e svampito, dal viso rubizzo e giulivamente ebete, è un po' troppo.
Se proprio ci si vuole sbarazzare del Cristianesimo — del linguaggio e delle figure che esso ha dato per secoli alla rappresentazione della vita —meglio tornare allo Yule, alla nordica festa pagana del solstizio d'inverno col suo culto delle demoniche forze elementari, che Lovecraft, nei suoi racconti dell'orrore assai poco natalizi, sentiva ancor vive e minacciosamente in agguato sotto la crosta della civiltà. Non a caso, al tempo della mia infanzia, catechisti e sacerdoti della parrocchia scoraggiavano e deprecavano, sia pur blandamente, l'albero di Natale, l'abete di remota ascendenza boreale e pagana, contrapponendogli il cristiano, cattolico e italico Presepe; palme e cammelli d'Oriente e dolce terra umbro-francescana contro la neve del Settentrione. Mi sarei dunque atteso una più energica riprovazione ecclesiastica — almeno pari a quella delle zucche di Halloween — del paonazzo fantoccio da supermarket, con le sue renne fatte per tirare la slitta a Cortina e non in Lapponia.
Se Babbo Natale, con rispetto parlando, deriva da Santa Claus ovvero San Nicolò, come triestino mi sento corresponsabile del suo trionfo, visto che a Trieste San Nicolò, col suo manto rosso, porta i doni nella notte tra il 5 e il 6 dicembre, ma quel rosso del santo di Bari ha almeno una sua regalità, da re pastore e non da insegna luminosa di supermarket. Quest'ultimo, ovviamente, può essere altrettanto sacro, con buona pace dei fustigatori del consumismo nostalgici della miseria dei tempi andati. Nessun oggetto, nessuna istituzione, nessun rito sono di per sé sacri; sacro è solo il senso di amore e soprattutto di rispetto per gli uomini. Comperare un panettone a un supermarket, pensando alla tavolata con persone amate, non èmeno poetico che preparare un pasto in una capanna di pastori o in una casa contadina. Sono i simboli della vita a dire il significato che le attribuiamo.
Sotto questo profilo, il ridanciano e scampanellante Babbo Natale è un segno della crescente scristianizzazione; della perdita della memoria, del linguaggio, del senso che il Cristianesimo dà al mondo. Non è solo il vituperato consumismo, simboleggiato da Babbo Natale, che disturba. Pure in passato il pranzo e i regali natalizi obbedivano alla logica del consumo, di per sé nient'affatto disdicevole, e non è un merito se la penuria, subìta e non certo scelta, costringeva a consumi più modesti. E' quel sorriso giocondo e soddisfatto nel roseo faccione che nega il Natale. Le feste di un tempo univano il piacere — per un bambino, anche l'incanto misterioso dei doni sotto l'albero o davanti al Presepe — e la malinconia della ripetizione, che scandisce il fluire e lo svanire del tempo quanto più cerca di catturarlo e fermarlo nel rito sempre uguale. La festa—e il Natale è quella più grande—fa (soprattutto faceva) sentire che la festa della vita finisce, che l'esistenza è il precipitare della gioia e degli affetti nel buio del tempo e del nulla, così come nel grande abete, che un magico zio travestito da angelo mi allestiva nella mia infanzia, una cascata di caramelle bianche come la neve cadeva e spariva nella folta ombra dei rami e le gocce di cera delle candele accese cadevano una sull'altra e si consumavano.
Ogni anno tante gocce d'oblio, mentre la tavolata famigliare si arricchiva di nuovi venuti e ancor più si spopolava di altri che se ne andavano lasciando seggiole vuote. La festa diceva la tenerezza e anche gli acri, amari malintesi della vita di famiglia; era occasione in cui emergevano e poi si sopivano rancori antichi, acerbamente conviventi con gli affetti, che il bambino captava sgomento e poi rasserenato, imparando a capire il nesso inestricabile di amore e avversione che lega gli uomini. Protagonista e vezzeggiata, l'infanzia era anche vagamente oppressa da quella ripetizione e da quella mistura di gioia e malinconia, immortalata in tragiche e debolmente sorridenti foto di famiglia. Anche in quei Natali tradizionali si violava e negava, senza saperlo, il significato del Natale, che è preludio di Buona Novella e di liberazione e non malinconia; tempo annunciato e vissuto come pienezza, come compimento di attese e valori, e non quale stillicidio di minuti e di anni nel nulla. Ma tutto ciò era almeno riscattato dalla malinconia; l'angelo—anche quello che porta i regali—è sempre malinconico, figura del mondo caduto e imperfetto. Babbo Natale invece è sinistramente allegro; è persuaso e vuole persuadere gli altri che tutto va bene e andrà sempre meglio; che il nostro mondo, la nostra società, il nostro benessere, il nostro denaro, la nostra democrazia, il nostro teatro quotidiano siano i migliori e gli unici possibili, una crescita destinata ad accrescersi trionfalmente sempre più, una scorpacciata senza limiti garantita da pillole digestive sempre più efficaci, un progresso inarrestabile, uno stadio definitivo e un ordine immutabile, un oggi scambiato per l'eterno. Incubi di pranzi in cui l'obbligato ingozzarsi insinua nell'animo una pesantezza di morte, quintali di biglietti augurali e cassette di vini e di dolciumi che ingombrano la casa dei fortunati destinatari di omaggi con la violenza dell'invasione.
Il Natale è la nascita di un bambino, di un salvatore che sarà crocifisso e conoscerà l'estremo abbattimento del Getsemani; la gioia che esso annuncia non è una truffa, perché non nasconde il dolore, il crollo del mondo. Uno dei più grandi racconti di Natale di ogni letteratura, «Cristallo di rocca» di Stifter, dice — come ha scritto Maria Fancelli in un memorabile saggio — «che l'attraversamento del nulla è necessario ». Babbo Natale vuole invece farci dimenticare che siamo sull'orlo di un vulcano, il quale potrebbe eruttare fuoco distruttore da un momento all'altro; che le tensioni del mondo si vanno facendo insopportabili e incontrollabili; che davanti al Presepe premono, per entrare in quella capanna che è il cuore del mondo, più persone di quante essa possa accogliere. Babbo Erode non si turba per le stragi di innocenti. Il fasullo scampanellìo della sua slitta cerca di sopraffare il coro degli angeli che annunciano gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. Cerca di coprirlo perché, se lo si sente, si rimane sbigottiti dalla smentita che quell'annuncio riceve sulla Terra, dove la pace è quasi sempre negata agli uomini di buona volontà e semmai concessa ai farabutti. Quel canto da sempre smentito va invece sempre ascoltato e seguito, per continuare a credervi contro ogni evidenza, a sperare contro ogni vittoriosa negazione, con quell'autentica speranza che passa sotto le forche caudine della disperazione e rifiuta le stampelle del tronfio e menzognero ottimismo.
Corriere delle Sera del 24 dicembre 2007
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