Si è sempre meravigliati e sorpresi davanti alla decisione di Dio Figlio di accettare la proposta di Dio Padre: svuotarsi esteriormente, per un tempo, della sua forma di Dio per prendere forma di uomo e di servo, con l'obiettivo di donare in sacrificio per tutta l'umanità il proprio corpo. Il mistero dell'amore di Dio che costituisce la vera pazzia del Vangelo è realtà storica, che sollecita la nostra fede e la nostra riconoscenza.
I primi
due versetti che desideriamo
esaminare sono i vv. 6-8 del capitolo secondo della lettera
dell’apostolo Paolo
ai Filippesi, nei quali vengono magistralmente delineati i tratti
essenziali
dell’umiltà e dell’ubbidienza di Gesù Cristo, vissuta a partire dalla
sua
preesistenza fino alla sua morte cruenta sulla croce…
Rileggiamoli
ancora una volta:
“(Cristo Gesù) il
quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò
l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò
sé
stesso,prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato
esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino
alla
morte, e alla morte di croce…”
Il testo parla dell’ubbidienza
di Gesù nel passato, sotto due profili che ne
rappresentano altrettanti stadi progressivi: il suo annichilimento e il suo abbassamento. Di essi tratteremo qui
di seguito:
evidenzieremo i singoli punti della progressione “inversa” trattata in
questi
versetti, e che va dalla perfetta gloria alla profonda umiliazione di
Gesù
Cristo.
Per sommi capi, possiamo
anticipare questi punti: il Signore
non si aggrappò gelosamente al fatto di essere uguale a Dio, per natura
ed
essenza (v. 6), ma anzi svuotò, annullò ed annichilì sé stesso (v. 7a),
prese
forma di servo e divenne simile agli uomini (v. 7b), fino ad abbassarsi
completamente e a farsi ubbidiente fino alla morte della croce (v. 8).
LO “SVUOTAMENTO” DI GESÚ
Il primo stadio, nel
processo d’ubbidienza di Gesù nel
passato, è senz’altro quello dell’annichilimento, narrato nei vv. 6-8a,
in cui
vengono esposti, succintamente e meravigliosamente, tre temi generali
cari alla
cristologia:
• la preesistenza e la deità di Cristo,
• la sua incarnazione,
• la perdita della sua
gloria nel
progetto redentivo di Dio.
Esaminiamo, qui di seguito,
le singole espressioni contenute
in questi versetti, cercando di evidenziare i punti salienti
dell’esegesi del
testo originale.
“Essendo in forma di
Dio…”
In pochissime parole
l’apostolo Paolo, ispirato dallo
Spirito Santo, sintetizza splendidamente le verità fondamentali
concernenti la
preesistenza e la deità di Gesù Cristo: egli esisteva ancor prima che il
mondo
fosse creato per il semplice motivo che egli non è una creatura ma è il
Creatore e sin dall’inizio era Dio per natura e per essenza intrinseca.
Molti altri brani del Nuovo
Testamento confermano questi
importantissimi assunti, relativi alla preesistenza e alla deità del
Figlio
eterno di Dio, e fra i tanti citiamo qui di seguito i principali, che si
trovano in Gv 1:1-2; Gv 17:5; Cl 1:15; Eb 1:3; e 1 Gv 1:1-2:
• “Nel principio era la
Parola, la Parola era con Dio e
la Parola era Dio; essa era nel principio con Dio…”
• “ ‹Ora, o Padre,
glorificami presso di te della gloria
che avevo presso di te prima che il mondo esistesse…»”
• “(Gesù Cristo) è
l’immagine del Dio invisibile…Egli è prima di ogni
cosa e tutte le cose sussistono in lui…”
• “(Gesù Cristo) è lo
splendore della sua gloria
e l’impronta della sua
essenza…”
• “Quel che era dal
principio, quel che abbiamo udito…vi
annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu
manifestata…”.
L’esegesi dell’espressione
di Fl 2:6 al nostro esame deve
iniziare dal gerundio “essendo”, che rende il senso del
verbo “esistere” più che del verbo “essere”.
È significativo notare che
nell’originale il verbo greco si
trova qui al tempo presente: ciò indica, infatti, “la continua
condizione
del Cristo: egli era Dio e lo è ancora, per sua stessa essenza”. Può essere condivisa,
allora, la
traduzione della King James Version (KJV), che legge l’inciso con: “essendo
originariamente”, a
indicare che siamo di fronte ad una forte dichiarazione in merito
alla
preesistenza o all’esistenza pre-temporale del Cristo.
Il vocabolo più importante
del nostro inciso di Fl 2:6, è
senz’altro individuabile nella parola “forma”, che regge il complemento
di
specificazione “di Dio” e che rivela in quale modo la persona di
Gesù Cristo sia
associabile a quella di Dio stesso.
Il vocabolo “forma”, in particolare, traduce
il sostantivo greco
μορφή (= morfè), che rende l’idea generale della forma organica di
un essere, nella quale si rinviene la sua essenza ovvero la sua natura
permanente. In altre parole, questo termine denota la forma o la
caratteristica
speciale e tipica di una cosa o di una persona, la sua reale sostanza,
che non
dev’essere necessariamente visibile ma che senz’altro sussiste in essa
fin
dall’inizio e ne è componente inseparabile e indispensabile.
Nella letteratura greca e
nelle opere extrabibliche prevale
l’accezione di μορφή con riferimento all’apparenza
esteriore,
anche in
rapporto alle visioni e alle apparizioni: in tal senso, peraltro, i LXX
hanno
tradotto il testo ebraico di Giobbe 4:16. Negli unici tre versetti del
Nuovo
Testamento in cui ricorre questa parola, invece, si alternano forme
esteriori e
transeunti (Mr 16:12) a caratteristiche intrinseche e permanenti (Fl
2:6, 7),
in un’apparente contrapposizione che viene ridimensionata dal fatto che
il
brano di Marco 16:12 (“Gesù apparve in altra forma a due di loro” – versione Luzzi) parla, è
vero, dell’esteriore forma umana di Gesù, ma sempre in relazione ad un
sembiante provvisorio e diverso da quello da lui avuto in vita, con
riferimento, pertanto, a uno dei differenti e particolari modi in cui il
Signore manifestò sé stesso all’umanità.
La stessa parola, per
altro, viene usata ancora nel
successivo v. 7 di Filippesi 2, stavolta per rendere la “forma di
servo” che
Gesù prese dopo essere
diventato uomo. È chiaro che qui lo Spirito Santo non si riferisce tanto
ad una
forma esteriore e visibile, quanto piuttosto ad un atteggiamento
mentale, ad
una disposizione interna dell’animo che scaturisce da una natura già
definitivamente acquisita e geneticamente inalterabile.
Una conferma di ciò può
essere data dall’uso biblico di
altri due termini, composti e derivanti da μορφή, cioè
i verbi μορφοομαι (= morfòomai) e
μεταμορφοομαι
(= metamorfòomai).
Il primo, in Galati 4:19, si riferisce a quel cambio di comportamento
che
scaturisce da una condizione spirituale interna trasformata; il secondo,
in
Matteo 17:2 parla del mutamento della forma visibile di Gesù durante la
trasfigurazione, mentre in Romani 12:2 e 2Corinzi 3:18 si applica alla
trasformazione della struttura interna del credente, che si manifesta in
modi
esteriori visibili all’occhio umano.
D’altro canto, nella nostra
lingua italiana non si parla
forse di “metamorfosi” per intendere un cambiamento nella struttura
interna, prima che nella
forma esterna, da parte di animali e di piante?
Il vocabolo greco μορφή (= forma), peraltro, è in
contrasto con
l’altro termine σχήμα (= schema), presente al v. 8 di Filippesi 2,
dove viene descritto l’aspetto fisico esteriore del Cristo, che era
perfettamente umano.
Nel Nuovo Testamento, quest’ulteriore vocabolo si riscontra ancora solo
in
1Corinzi 7:31, dove sta scritto che “la figura di questo mondo passa”, con riferimento alle
cose
materiali e ai beni terreni, che per loro natura non sono eterni. Lo
stesso
termine σχήμα, d’altronde, è molto adoperato nella
letteratura greca extrabiblica, ma esclusivamente nel senso di sembiante
esteriore, di corpo umano, o più in generale di temporanea
configurazione che
sia visibile ad occhio nudo.
L’espressione completa
adoperata nel brano di Fl 2:6 è morfè
theù (=
forma di
Dio),
frequente
nella letteratura greca classica (es. Omero), dove ricorrono spesso
ipotesi di
dèi che prendono forma umana, benché ciò fosse contestato da filosofi
come
Socrate e Platone. Nella Bibbia, invece, quest’espressione composta si
trova
solo nel nostro versetto, nel quale lo Spirito Santo vuole rendere la
manifestazione esteriore del Cristo preesistente, la quale corrispondeva
perfettamente alla sua natura divina: in mancanza di un termine
migliore, viene
qui adoperata la parola “forma”, allo scopo di rappresentare ciò che è
esterno e transeunte,
ma come espressione visibile di ciò che è interno e permanente.
In altre parole, in Fl 2:6
questa espressione della lingua
greca sta a indicare che Gesù Cristo era della stessa sostanza di Dio
Padre
sin dalla sua preesistenza, quando già portava l’immagine della divina
maestà.
Si tratta di una delle
affermazioni più importanti del Nuovo
Testamento in merito alla deità di Cristo: qui si parla dell’aspetto
esteriore
del Cristo preesistente, che corrispondeva perfettamente alla sua natura
divina
e che egli ha perduto con l’incarnazione, al contrario della sua deità,
che
egli non poteva perdere in quanto era (ed è!) a lui connaturata
indefettibilmente.
“…non considerò qualcosa
a cui aggrapparsi
gelosamente…”
Ecco il primo stadio del
processo che portò il Cristo dalla
gloria che godeva alla destra del Padre all’umiliazione della croce. In
questo
primo stadio, possiamo immaginarlo alla presenza di Dio Padre, che vive
la
pienezza della deità e della gloria che gli appartiene ma, di fronte
all’opportunità
di realizzare il piano redentivo dell’intera umanità, Dio Figlio
accetta di
incarnarsi per rendersi ubbidiente al Padre, fino alle più estreme
conseguenze.
Il vocabolo-chiave di
quest’inciso è il sostantivo
αρπαγμον (= arpagmòn), presente solo qui in tutto il
Nuovo Testamento: si tratta di un termine raro nel greco classico
assente nelle
traduzioni greche dell’Antico Testamento. La Nuova Riveduta lo traduce: “qualcosa
a
cui aggrapparsi gelosamente”, mentre altri lo rendono “rapina” (Luzzi) oppure “cosa
da ritenere
con avidità”
(Diodati). Tutte queste traduzioni sono possibili, ma il punto cruciale
è,
piuttosto, comprendere che cosa significhi quest’espressione verbale
nella sua
intrinseca essenza.
Molte interpretazioni sono
state proposte, ma quella che mi
sembra più vicina al cuore di Dio e al contesto del brano, vede il
Cristo nella
sua pre-esistenza che già possedeva una perfetta uguaglianza con il
Padre e si
trovava nella posizione più
alta ed eccelsa che si possa immaginare, posizione dalla quale nessuno
poteva
spodestarlo. Il Cristo partecipava alla natura divina e avrebbe potuto
legittimamente approfittare del suo stato di assoluto privilegio ma,
invece di
aggrapparsi gelosamente a tale posizione e a tale privilegio, invece
di
afferrare con avidità per sé stesso la gloria e l’essere Dio, vi
rinunciò e
scelse l’incarnazione e l’umiliazione per essere poi dichiarato con potenza
Signore e Figlio di
Dio (cfr. Romani 1:4).
Di conseguenza, il Cristo
non rinunciò alla sua deità ma
rinunciò solo alla sua posizione ed alla forma esteriore della sua
divinità: in
vista della redenzione della sua creatura più amata, egli scelse
liberamente
e volontariamente la via della sofferenza e dell’ubbidienza, come cammino di santità
verso
l’affermazione incontrastata della sua signoria su tutte le cose.
Per chi dovesse preferire
la traduzione “rapina”, sarà certamente apprezzato il
commento di quegli studiosi che interpretano quest’inciso attribuendo a “rapina” il significato secondo
cui Dio
Figlio non pensò mai di essere colpevole di furto o di appropriazione
indebita,
quando condivideva la deità alla destra del Padre, e che, di
conseguenza, vi
rinunciò volentieri al fine di raggiungere l’altissimo obiettivo della
redenzione dell’intera umanità.
In tal senso, allora, si
può dire che il Cristo
pre-incarnato non stava usurpando il diritto di nessun altro: egli
poteva
pretendere senz’altro di essere uguale a Dio… perché lo era! Per
qualunque
essere umano, invece, una pretesa del genere sarebbe un derubare Dio in
quanto
ai Suoi specifici diritti, dal momento che egli stesso dice chiaramente:
“Io
sono il Signore… Io non darò la Mia gloria ad un altro!” (Is 42:8).
“…l’essere uguale a
Dio…”
Anche quest’ulteriore
inciso conferma sinteticamente la
preesistenza e la deità di Gesù Cristo, dal momento che egli possedeva
pienamente la condizione, la natura e l’essenza di Dio stesso.
Il termine greco che noi
traduciamo “uguale” significa “uguale in quantità
oppure in qualità”.
Già nella sua preesistenza,
il Signore Gesù Cristo sussisteva
della stessa sostanza e natura di Dio Padre, ed era “uguale” a lui in tutti i sensi,
dal momento
che egli esisteva nella struttura essenziale e metafisica di Dio stesso.
Anche nella sua parentesi
di vita terrena, d’altronde, Gesù
affermò chiaramente di essere una cosa sola con Dio Padre (Gv 10:30) e per questo
egli fu
accusato di considerare sé stesso come Dio (v. 33). In precedenza
(5:18), il
Cristo aveva anche chiamato Dio suo Padre, affermando così
indirettamente
– secondo la sensibilità ebraica del tempo – di essere “uguale” a lui. In tal modo, il
Cristo
sgombrava il campo da ogni dubbio in merito alla sua natura divina,
perfettamente e permanentemente tale, ma anche in relazione alla sua
preesistenza rispetto al creato.
“…ma svuotò sé stesso…”
A questo punto entriamo nel
vivo del secondo stadio del
processo di umiliazione di Gesù Cristo: a seguito della decisione di non
trattenere per sé la gloria, ed allo scopo di rendere possibile la
redenzione
dell’umanità peccatrice, ecco la determinazione di Dio Figlio che decide
volontariamente e concretamente di realizzare il “grande salto” e di
passare
dalla forma esteriore di Dio a quella di uomo, con tutto ciò che tale
“salto”
poteva comportare.
In altre parole, siamo di
fronte al risultato visibile, all’effettiva
conseguenza della scelta, importantissima, già effettuata al v. 6: non
aggrapparsi gelosamente alle proprie prerogative divine, per il Cristo
significava in qualche modo “svuotarsene”, senza comunque cessare
di
essere Dio eterno e
senza rinunciare alla propria deità, che in ogni caso faceva parte
integrante
di Sé.
Ma come poteva accadere
tutto ciò?
Il verbo greco utilizzato
nel nostro inciso nella Nuova
Riveduta e nella Nuova Diodati è tradotto con “svuotò”, mentre altre versioni
rendono “annichilì” (Luzzi, Diodati) oppure “spogliò” (Nuova Riveduta 1982).
Questo verbo
ha tre significati nel Nuovo Testamento: letteralmente significa “svuotare”, e in senso traslato
fornisce
l’idea di “rendere vano” (così in Ro 4:14 e in 1Co 1:17, 9:15) oppure anche
di “essere
smentito” (così
in
2Co 9:3).
Nel nostro brano prevale il
primo significato, per cui è
stato affermato che, in questo caso, la traduzione “annichilì” non sarebbe preferibile
in quanto
renderebbe proprio l’idea di “rendere vano, annullare” più che di “svuotare”. Il Cristo, in realtà,
non rese
vana la sua deità e neppure l’annullò: fattosi uomo, piuttosto, egli
rimase
quale era per essenza, cioè Dio, modificando soltanto le modalità di
esistenza
e di manifestazione della Sua deità.
Un ampio dibattito
teologico si è acceso, durante i secoli,
intorno alla migliore interpretazione da dare alla kenòsis del Cristo. In questa
sede non
abbiamo la pretesa e neanche la volontà di ripercorrere tale dibattito,
ma
ricordiamo solo che le evidenze scritturali, anche di Filippesi 2:7, non
appoggiano né i teologi della “teoria massimale”, secondo cui il Cristo
avrebbe
rinunciato alla sua gloria solo in apparenza perché avrebbe invece
conservato
intatte tutte le qualità della deità, né gli studiosi che sposano la
cosidetta “teoria
minimale”,
per la
quale il Cristo incarnato avrebbe rinunciato completamente ai suoi
attributi
divini e, per un tempo, avrebbe abbandonato del tutto la sua gloria.
Dalla Scrittura, invece,
deduciamo con chiarezza che Dio
Figlio, con l’incarnazione, continuò a possedere tutti gli attributi
divini, ma
per trentatré anni fu limitata la sua gloria e vennero modificati
l’esercizio e
la manifestazione delle sue capacità divine. In altre parole, Gesù
mise da
parte e non rese visibili i suoi onori e il suo splendore ma, allo
stesso
tempo, non si svuotò della sua deità, cedendo piuttosto al Padre, e
volontariamente, il diritto
di esercitarne i relativi attributi. Il Signore, cioè, nella sua vita
terrena
manifestò la propria potenza divina solo se e quando era il momento
giusto per
Dio Padre. Per fare solo un esempio: Gesù era onnisciente e onnipotente
(cfr.
Gv 2:24-25; 5:19-21) non sempre manifestò tale qualità o ne fece uso
(cfr. Mr
11:13-14, 20; Gv 11:34), evidentemente perché ciò non rientrava nella
volontà
del Padre.
È interessante notare che
il testo non dice espressamente di
che cosa il Cristo si spogliò, ma solo che egli “svuotò sé stesso”: non vi sono complementi
oggetto
che chiariscano gli elementi concreti di tale svuotamento, né vengono
definite
in senso metafisico le specifiche limitazioni che visse il Cristo
incarnato.
Nei due gerundi che seguono nel testo, però, lo Spirito Santo fornisce
una
descrizione chiara e forte di che cosa significò l’atto di rinuncia
del
Figlio di Dio: Egli
divenne uomo e servo, e in tal modo la Scrittura esprime in modo
sintetico e
scultoreo quello che fu l’ineffabile atto di abnegazione del Cristo
(cfr. 2Co
8:9).
“…prendendo forma di
servo…”
Questo è il primo contenuto
pratico della scelta di Cristo
di “svuotare sé stesso”: a seguito della trasformazione qualitativa
realizzata con
l’incarnazione, il Figlio di Dio scelse anche di divenire un vero e
proprio
servo dell’umanità (cfr. Mt 20:28), nella piena realizzazione delle
profezie
dell’Antico Testamento concernenti il Servo dell’Eterno, noto anche come
“il
Servo sofferente”
(es. Is 52:13-53:12).
Nella sua esistenza
terrena, vissuta nella perfetta
ubbidienza al Padre, Dio Figlio fu sublime esempio di ciò che
significa
essere contemporaneamente servo di Dio e servo degli uomini. Questa coincidenza di
status di
servizio è da intendersi in senso spirituale ed etico e va riferita alla
condizione intrinseca dell’anima, che è visibile all’esterno solo in
parte e
solo per mezzo di concrete scelte di vita. Non meraviglia, allora, che
ritroviamo qui il termine morfè il quale, come sappiamo, significa “forma”, nella specifica
accezione di
struttura interna di un essere vivente, la quale si manifesta anche
all’esterno
nei comportamenti e negli atteggiamenti, ma ha a che fare soprattutto
con il
segreto dell’anima.
Questa “forma di
servo”
è in evidente contrasto con la “forma
di Dio”
del
precedente v. 6: Dio Figlio si
trovò sulla terra in una situazione ontologica completamente diversa e
del
tutto inconciliabile con quella che viveva in precedenza nella gloria
del
Cielo... Dio che prende forma di uomo e addirittura di servo: questo è lo
scandalo
del Vangelo,
difficile da comprendere e da accettare per noi uomini, ma agli occhi di
Dio
esso identifica un perfetto atto di ubbidienza del Messia.
L’altra parola greca dùlos, che traduciamo “servo”, non sottolinea tanto la
posizione
sociale di uno schiavo quanto piuttosto la sua dipendenza psicologica
dal
padrone. Questo termine si trova 122 volte nel Nuovo Testamento, in
Filippesi
anche in 1:1, e nel nostro versetto non significa in alcun modo “schiavo” quanto piuttosto “servo” perché sottolinea in modo
particolare la sottomissione al Padre, vissuta da Dio Figlio
incarnato in
quei trentatré anni di vita terrena, ma anche l’umanità di Gesù Cristo in tutta
la sua
fragilità e finitezza (cfr. Ro 8:3; Eb 2:14).
Il Signore non ha posto
limiti al suo abbassamento, che era
assolutamente necessario per realizzare la missione divina della
redenzione
dell’umanità. Entrando nella storia, Egli divenne un uomo e si abbassò
ancora
di più, perché nel suo intimo divenne un umile servitore di Dio e della
stessa
umanità, che Egli doveva riscattare dalla giusta condanna eterna.
Infine, il gerundio “prendendo”, non implica un cambio
nella deità
di Cristo quanto piuttosto un’aggiunta nella sua struttura essenziale:
Gesù non
poteva cessare di essere Dio ma allo stesso tempo per una parentesi di
trentatré anni divenne uomo e, ancor più, servitore di tutti. Egli non
ricevette né onori né gloria, visse in povertà assoluta e fece del bene a
tutti, fino a dimostrare, anche visibilmente, il suo spirito di
servizio, per
esempio quando lavò umilmente i piedi ai suoi stessi discepoli (Gv
13:5-17)28.
“…divenendo simile agli
uomini; e trovato
esteriormente come un uomo...”
Eccoci, ora, dinanzi alla
seconda conseguenza pratica della
scelta del Cristo di “svuotare sé stesso”: Gesù nella sua
incarnazione associò una natura di
servitore ad una sembianza esterna di uomo, entrambe a lui del tutto
sconosciute prima di allora.
Abbiamo preferito unificare
le due espressioni verbali che
intitolano questo paragrafo perché esse, seppure siano grammaticalmente
distinte, esprimono il medesimo concetto, relativo alla visibilità
dell’incarnazione del Figlio di Dio.
La prima espressione (“divenendo
simile agli uomini”) è diretta conseguenza e
chiarimento dello svuotamento del Cristo esposto nel v. 7: essa
probabilmente
conclude concettualmente questa parte del nostro brano, descrivendo
anche ciò
che il Cristo incarnato era al cospetto di Dio.
Con la seconda espressione,
invece, (“trovato
esteriormente come un uomo”) forse si dà inizio ad una nuova argomentazione e
sicuramente si pone una “cerniera” con l’affermazione precedente,
rafforzandola
e sottolineando l’oggettiva visibilità delle sembianze umane di Gesù.
Nella sua
vita terrena, il Signore non fu solo “simile” agli uomini, ma fu
proprio come
uno di noi,
almeno
nelle sembianze esteriori, che chiunque poteva riconoscere come
perfettamente
umane.
Dal punto di vista
esegetico, nella prima espressione
verbale si può innanzitutto notare il netto contrasto fra il gerundio “divenendo” ed il precedente gerundio
“essendo”. In quest’ultimo caso, infatti, si
parlava dell’immutabile esistenza eterna del Cristo come Dio, mentre nel
nostro
vocabolo viene menzionato un provvisorio “diventare” ciò che prima non si era,
con
particolare riferimento a quella forma esteriore che fu assunta da Dio
Figlio
nella sua breve esistenza terrena.
Degno di rilievo è anche
l’inciso che di norma viene
tradotto “simile”
ma che letteralmente sarebbe “in similitudine” oppure “in apparenza”.
Si tratta dello stesso
vocabolo usato dallo Spirito Santo in
Romani 1:23 e in Apocalisse 9:7 per rappresentare una somiglianza fisica
in
relazione a cose inanimate e ad animali, nonché in Romani 5:14, 6:5 e
8:3 per
indicare un’assimi-
latitela di tipo
concettuale. In Romani 8:3, in particolare,
questa similitudine viene riferita allo stesso Gesù Cristo: egli era il
Figlio
di Dio venuto “in carne, simile a carne di peccato”, e ciò conferma che il
Signore,
nella sua parentesi relativa all’incarnazione, fu riconosciuto da
tutti come
un uomo,
per il
semplice motivo che ne aveva tutti i connotati fisici, anche se la sua
persistente natura divina e la sua ubbidienza al Padre impedirono che
egli
peccasse e che, da questo punto di vista, si andasse oltre ad una mera
rassomiglianza con il resto dell’umanità.
Sotto un altro punto di
vista, può essere utile sottolineare
che lo stesso termine è usato dai LXX per tradurre la “somiglianza” iniziale dell’uomo con
Dio, di cui
leggiamo in Genesi 1:26. Ciò potrebbe anche implicare che quella
rassomiglianza, corrotta con il peccato, è stata ristabilita da Dio
stesso
quando ha preso forma umana, ed è valida ed efficace ancora oggi per
tutti
coloro che si fanno perdonare e rigenerare dal Signore Onnipotente.
Una buona illustrazione della “similitudine” temporanea fra Cristo e
l’uomo può
essere data dalla novella “Il principe e il povero” di Mark Twain. Il figlio
del re
d’Inghilterra decise di cambiare per un tempo la sua posizione con
quella di un
ragazzo povero che fisicamente gli rassomigliava molto: in tal modo il
principe
sperimentò per qualche tempo che cosa significava la povertà e la fame, e
seppe
farne tesoro una volta che divenne re egli stesso.
In modo parzialmente
analogo, il Cristo, quando si fece
uomo, assunse tutta l’umanità possibile e rinunciò all’uso indipendente
dei
suoi attributi divini: quando fece miracoli o manifestò in altro modo la
sua
gloria, Gesù lo fece sempre sotto la direzione di Dio Padre e con la
potenza di
Dio Spirito (cfr. Lu 4:14; Gv 5:19; 8:28; 14:10).
Per quanto riguarda, poi,
la seconda espressione verbale del
nostro inciso, dal punto di vista esegetico il vocabolo più interessante
è
senz’altro il dativo singolare σχήματι (=
schèmati),
tradotto
“esteriormente” oppure “nell’esteriore”, che rende l’idea, a noi
ben nota, di quella struttura
esteriore della forma che può essere intesa dai cinque sensi umani,
ovvero di
quell’apparenza esterna che qualsiasi cosa o persona in possesso di una
propria
configurazione visibile può avere, anche se solo in via temporanea.
Non si tratta, allora,
di una completa identità tra il
Figlio di Dio e qualsiasi creatura umana, quanto piuttosto di una mera
rassomiglianza nelle sembianze esteriori.
Gesù era Dio e possedeva
anche una natura di vero servitore,
ma esteriormente era del tutto come un qualsiasi altro uomo, specie per
quanto
riguarda le fattezze esteriori. Dio Figlio non venne sulla terra per
regnare e
non apparve in pompa magna come qualsiasi futuro re terreno: per sua
iniziativa
e volontà, con il suo pieno consenso, il Cristo lasciò la gloria e visse
per un
tempo in mezzo a noi senza alcun segno esteriore di distinzione.
Anche il Figlio di Dio, per
esempio, fu sottoposto alle
tentazioni come noi, però senza mai peccare (Eb 4:15); anch’egli soffrì
(Eb
5:8) e pianse (Gv 11:35), ebbe fame (Mt 4:2) e sete (Gv 4:7)…
esattamente come
ciascuno di noi.
Giuseppe
Martelli
(Assemblea
di Roma, Borgata
Finocchio)
Fonte: www.ilcristiano.it
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