Ha detto giustamente qualcuno che “la miglior campagna di evangelizzazione è la vita di ogni figlio di Dio”. È con le nostre relazioni interpersonali, che possiamo attirare le persone a Cristo o che, al contrario, possiamo allontanarle da lui. Per questo abbiamo bisogno di riflettere (e molto!) sulla qualità della nostra vita e, in particolare sulla coerenza fra le nostre azioni e le nostre parole.
Il divino mandato
Il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, prima di salire nella gloria della presenza di Dio e sedere alla destra della Maestà, ha affidato un mandato ai discepoli che è il mandato di tutti noi che abbiamo creduto in lui:
“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate” (Mt 28:19).
Andate, fate discepoli, battezzate, insegnate: in queste quattro forme verbali è la missione della Chiesa. La priorità viene solitamente data all’evangelizzazione, ossia alla testimonianza verbale, all’appello contenuto nella “buona notizia” dell’Evangelo. Ed è giusto.
Ma quanta di questa testimonianza verbale viene talora vanificata dalla testimonianza della vita, ossia da un comportamento non coerente con quanto viene predicato?
C’è quindi una testimonianza silenziosa, ma altrettanto importante, da portare avanti, perché costituisce la conferma o la smentita della testimonianza verbale.
Vorrei qui citare un esempio tratto dalla Parola di Dio.
Un testimone silenzioso
Nel capitolo 12 dell’Evangelo di Giovanni è riportato l’episodio del “convito di Betania”, nel corso del quale Maria unge i piedi di Gesù.
L’occasione è quella di una cena organizzata per festeggiare il Maestro che ha risuscitato Lazzaro dai morti e Lazzaro siede a tavola con Gesù, le sue sorelle e gli altri commensali.
Lazzaro è un personaggio singolare: gli evangeli riportano le parole di Marta e di Maria, ma non è mai riportata una parola pronunciata da Lazzaro. Lazzaro non parla, ma è la vita che c’è in lui che parla per lui. Lazzaro non ha bisogno di parlare perché la sua sola presenza è la testimonianza vivente della potenza del Signore.
Lazzaro, colui che era morto ed è tornato in vita, il risorto dai morti, è a tavola con il suo Signore. Splendida figura dei credenti, i risorti dai morti, quando siedono a tavola con il loro Signore, secondo il testo:
“Dio ha vivificati anche voi, che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati” (Ef 2:1).
Se continuiamo la lettura del testo nell’Evangelo di Giovanni, troveremo che “molti (una grande folla) vennero non solo a motivo di Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti” (v. 9); non solo, ma è anche scritto che “i capi sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, perché, a causa sua, molti Giudei andavano e credevano in Gesù” (vv. 10,11).
Straordinario: molti andavano e credevano in Gesù per la testimonianza di Lazzaro che non pronunzia una sola parola. Lazzaro non parla, ma è la sua vita che parla per lui.
Possiamo domandarci se la nostra vita è tale che la gente (una grande folla) viene per vederci e molti, vedendo noi, credono nel Signore.
Oppure sono talora scandalizzati dal nostro comportamento e ci dicono: “Come mai, voi che dite «così e così», poi fate «cosà e cosà»?”
Dei discepoli è scritto che le persone “riconoscevano che erano stati con Gesù” (At 4:13).
Evidentemente in loro e nel loro atteggiamento c’era qualcosa che ricordava Gesù.
Voi siete una lettera di Cristo
Sotto un’altra prospettiva, l’apostolo Paolo espone questo concetto scrivendo ai credenti della chiesa di Corinto: “Voi siete una lettera di Cristo…” (2Co 3:3).
“VOI”, con la vostra vita, con il vostro comportamento, con il vostro atteggiamento, con le vostre scelte, non solo con le vostre parole.
Si tratta di un messaggio che Dio indirizza al mondo, tramite la vita dei credenti, scritto dallo “Spirito dell Dio vivente” nei cuori. E ciò che è scritto nel cuore si vede all’esterno ed influenza tutta l’esistenza.
L’apostolo Paolo esortava i credenti di Roma, dicendo:
“Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente” (Ro 12:2) e li diffidava dal seguire l’andazzo del mondo nel quale vivevano invitandoli, invece, ad andare contro corrente. Questo investe il grosso problema dell’etica cristiana, argomento vastissimo che coinvolge ogni ambito dell’esistenza.
La legge e la grazia
A questo punto, noi domandiamo: “Come fare, Signore, per essere all’altezza di queste cose?”
Durante l’Antico Patto vi era una serie di regole e Dio aveva detto:
“Osserva la legge e vivrai” (cfr. Le 18:5, Ro 10:5).
Ma l’uomo fu incapace di osservare la Legge che egli stesso aveva chiesto, perché la Legge era spirituale e l’uomo carnale. Allora Dio disse:
“Io metterò la mia legge nell’intimo loro e la scriverò sul loro cuore” (Gr 31:33, Eb 8:10), promessa ripetuta più volte da diversi profeti.
Qual era la novità? Non c’era più bisogno di cercare la norma, la regola, il precetto; il credente veniva cioè messo in grado di valutare egli stesso le cose dal punto di vista di Dio. L’apostolo Paolo avrebbe definito questo fenomeno, dicendo che il credente diviene legge a sé stesso (cfr. Ro 2:14,15).
I principi generali della grazia
Vorrei qui fare un esempio per chiarire questo concetto.
In tribunale il giudice ha il compito di applicare le leggi scritte del codice civile o del codice penale a seconda dei casi che deve trattare.
Ma può capitare che non ci sia una norma specifica che disciplini il caso concreto. In questi casi c’è una prescrizione che invita il giudice a giudicare in base ai “principi generali del diritto”. Cosa significa? Significa che il giudice è chiamato a giudicare in base ai “principi di equità e di giustizia”, universalmente riconosciuti come ispiratori delle leggi scritte.
Nel credente, fatti i doverosi “distinguo”, credo che avvenga qualcosa di simile.
Il fatto che Dio abbia posto la sua legge nel cuore e nella mente del credente significa che il credente non è più tenuto a ricercare la norma, il precetto, la regola (non fare questo, non fare quello = Legge), ma è posto in grado di valutare le cose in base ai “principi generali della grazia”, ispiratori del messaggio dell’Evangelo e che sono: l’amore, la misericordia, il perdono ecc.
Per quale motivo? Perché tali principi non sono altro che i divini moventi che hanno spinto il Padre a manifestarli attraverso l’Evangelo della grazia, la cui lettera ed i cui contenuti non andranno mai disgiunti dai principi che lo hanno ispirato.
L’esempio eccellente di Cristo
Questo ci libera anche dal legalismo, un pericolo sempre presente, in agguato nelle nostre assemblee.
Come fare per evitarlo? Rifacendosi ancora una volta al divino modello, alla persona del Signore Gesù:
“Imparate da Me…” (Mt 11:29), diceva ai discepoli.
Anni fa circolava un vecchio libro che meriterebbe di essere rispolverato. Il suo titolo era: “Che farebbe Gesù?”. Come si sarebbe comportato Gesù in questa o in quella circostanza?
Gesù non disdegnava di mescolarsi ai bevitori ed alle prostitute, pur di portare loro una parola di amore e di speranza.
Ho io il coraggio di farlo? Abbiamo noi il coraggio di rompere le tradizioni, oppure continuiamo a lasciarci condizionare da esse, nascondendoci dietro frasi del tipo: “Si è sempre fatto così; perché dobbiamo cambiare?”. Non è facile sfidare il disprezzo degli uomini pur di portare amore a chi ne ha bisogno.
“Voglio misericordia!”
I Farisei, (cioè i legalisti del tempo di Gesù) avevano criticato il divino Maestro, dicendo:
“Perché il vostro Maestro mangia con i pubblicani e con i peccatori?” (Mt 9:11, Lu 15).
I Farisei avevano etichettato come “peccatori” una categoria di persone, quasi che essi fossero esenti dal peccato.
Notate poi il tono di disprezzo: il “vostro” Maestro! Essi, i Farisei, non mangiavano con loro, con “i peccatori”: avevano paura di contaminarsi.
Ricordiamo tutti la preghiera del Fariseo nel tempio: “Io che pago la decima, io che digiuno, io che osservo la Legge…”.
“Io, io, io...”: il sintomo dell’orgoglio.
Essi osservavano la lettera della Legge, ma avevano dimenticato che la lettera uccide e che è lo spirito che dà vita. Gesù dirà che il pubblicano era andato a casa sua giustificato, mentre il Fariseo no, perché era ripieno della propria giustizia.
Poi Gesù ribadisce:
“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Mt 9:12, Mr 2:17, Lu 5:31).
Cosa significa? Per illustrare questo insegnamento, Gesù racconta loro una parabola ed è la parabola della pecora smarrita (Lu 15), concludendo poi il discorso con queste sferzanti parole:
“Ora andate e imparate che cosa significhi: «Voglio misericordia e non sacrificio»” (Mt 9:13).
Non decime, non digiuni, non feste, non offerte, non sacrifici, ma misericordia verso il prossimo e verso i fratelli.
Vogliamo noi arrivare al giorno in cui il Signore ci dirà: “Io ho in odio le vostre feste ed i vostri convegni. Io voglio misericordia e non sacrifici”?
Quando Gesù parla della pecora smarrita, egli dice che il pastore, il buon Pastore, ha lasciato le altre novantanove nel deserto ed è andato a cercare quella che si era smarrita.
Il deserto non è un luogo piacevole. Il deserto non è un luogo di gioia. Il deserto è un luogo dove non c’è da mangiare e non c’è da bere. È un luogo di precarietà e di sofferenza. Ma il buon pastore non ha esitato a lasciare le altre novantanove pecore per andare a cercare quell’unica che si era smarrita.
Comprendiamo noi quello che la Scrittura vuole dire? Perché il buon Pastore va in cerca della pecora smarrita? Perché ha misericordia di lei. Perché quella pecora ha bisogno dell’aiuto del pastore. Perché il buon Pastore ama la pecora che si è smarrita e questo non significa che non amasse più le altre novantanove.
Ma questo i Farisei non lo avevano capito. I Farisei si contentavano di fare e rifare i soliti sacrifici, ma avevano dimenticato cosa volesse dire avere misericordia. Ecco perché in questo episodio la conclusione di Gesù è tagliente e perentoria:
“Ora andate e imparate che cosa significhi: «Voglio misericordia e non sacrificio»; poiché Io non sono venuto a chiamare dei giusti (o che si ritengono tali), ma dei peccatori (cioè dei bisognosi d’aiuto)” (Mt 9:13).
“Voglio misericordia”: non è un “optional”, non è una cosa facoltativa, ma è un ordine.
Lì vi erano persone che si ritenevano giuste ed in diritto di giudicare il Signore ed il Suo operato. “Il vostro Maestro”, dicevano con tono di spregio.
Ma ricordiamoci:
“Il giudizio è senza misericordia contro chi non ha usato misericordia. La misericordia invece trionfa sul giudizio.” (Gm 2:13).
La misericordia prevale sul giudizio.
“Ma Signore – domandiamo noi – come giudicare di fronte a casi concreti?”.
La Scrittura, anche in questo caso, è perentoria:
“Non giudicate…” (Mt 7:1).
Ma come valutare, come comportarsi
La Saggezza che viene dall’Alto
La Sacra Scrittura ancora una volta ci soccorre e ci suggerisce: con la saggezza che viene dall’Alto!
Ma com’è questa saggezza, come la si riconosce?
Giacomo, l’apostolo del cristianesimo pratico, precisa:
“La saggezza che viene dall’Alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia” (Gm 3:17).
La saggezza divina è pura, perché non è inquinata da altri sentimenti o moventi; è pacifica perché porta la pace e la concordia dove c’è il dissidio o l’incomprensione; è mite perché non si impone con durezza, ma conquista i cuori con la sua dolcezza; è conciliante perché non è intransigente sulle proprie posizioni, ma ricerca con pazienza l’accordo; è piena di misericordia, perché riconosce di buon grado che i torti non sono mai da una parte sola ed è disposta a passare sopra alle offese e ne è “piena”, perché occorrono tanta e non poca misericordia e tanta pazienza se si vogliono raggiungere dei risultati concreti; è piena di buoni frutti, che sono il frutto dello Spirito, che è: “… amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo” (Ga 5:22); non è parziale, perché non usa due pesi e due misure; infine non è ipocrita, perché ricerca sinceramente la verità ed il bene del prossimo.
L’importanza della misericordia
Se manca la misericordia, possiamo essere certi che non è la Sapienza da Alto quella che ci guida, anche e soprattutto nei rapporti reciproci fra fratelli.
Ma attenzione, perché l’altra alternativa, nel pensiero dell’apostolo Giacomo, è tremenda: infatti, se sono presenti invidia e contesa, “ non è la saggezza che scende dall’Alto; ma è terrena, animale, diabolica…” (Gm 3:15).
Stiamo attenti a non prestare, come si suole dire, il fianco al diavolo che se potrà, manovrerà anche noi per raggiungere i suoi obiettivi nefasti che sono l’inimicizia, le contese, le divisioni.
L’apostolo Pietro scrive che:
“… il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere, ad una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti” (1 P 1:3).
Senza la misericordia di Dio nessuna rinascita, nessuna nuova nascita, nessuna salvezza sarebbe stata possibile.
“Ma voi, – dirà l’apostolo Pietro in contrapposizione ai disubbidienti che inciampano nella Parola – siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa; voi, che prima non eravate un popolo, ma ora siete il popolo di Dio; voi che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia” (1P 2:9,10).
Anche noi siamo stati gli oggetti della misericordia divina. Che non possiamo mai dimenticare l’esortazione di Gesù:
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lu 6:36) e che possiamo desiderare con tutto il cuore di essere partecipi della speciale beatitudine pronunziata da Gesù:
“Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta” (Mt 5:7).
Camminare come Cristo
Lo Spirito di Dio per bocca dell’apostolo Giovanni consigliava:
“Chi dice di rimanere in lui, deve camminare come Egli camminò” (1Gv 2:6).
Se siamo di Cristo, la nostra vita deve essere diversa dalla vita delle persone che sono intorno a noi e che intendiamo evangelizzare.
Se viviamo come vivono i pagani, come ci distingueremo da essi?
Quale messaggio porteremo loro?
L’apostolo Paolo scriveva ai credenti della chiesa di Efeso:
“Questo, dunque io dico e attesto nel Signore: non comportatevi più come si comportano i pagani nella vanità dei loro pensieri, con l’intelligenza ottenebrata, estranei alla vita di Dio…
Ma voi non è così che avete imparato a conoscere Cristo…, avete imparato per quanto concerne la vostra condotta di prima a spogliarvi del vecchio uomo che si corrompe seguendo le passioni ingannatrici; a essere invece rinnovati nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio…” (Ef 4:17-24).
Nella lettera ai Colossesi l’apostolo Paolo esortava i credenti con ricchezza di particolari a spogliarsi della vecchia natura e degli atti del vecchio uomo per rivestire l’uomo nuovo (cfr. Cl 3:1-14).
L’apostolo Pietro gli fa eco, dicendo:
“Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1P 2:9).
Proclamare le virtù di Dio
L’apostolo Pietro sta parlando ai credenti, al popolo di Dio a cui “è stata fatta misericordia”, perché a sua volta usi misericordia nei suoi rapporti interpersonali; altrimenti non sarà mai in grado di adempiere il compito che Dio gli ha affidato.
E qual è questo compito?
Quello di “proclamare le virtù di colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”.
Ecco il compito che Dio affida a coloro che si riconoscono appartenenti al suo popolo: proclamare le virtù di Dio.
Ma cosa sono le “virtù di Dio”?
Sono i suoi caratteri.
E come si proclamano i caratteri di Dio?
Con discorsi, con parole, con messaggi, con convegni, con prediche? No. Riflettendoli come degli specchi.
L’affermazione del Signore Gesù: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5:14) ha un senso in quanto Lui, il divino Maestro, ha detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8:12).
I credenti sono la luce del mondo nella misura in cui riflettono la luce della verità che proviene dalla sorgente, ossia da Dio. Come la luna può illuminare solo in virtù della luce che riceve dal sole.
Ma torniamo alle virtù di Dio, cioè ai caratteri divini che i credenti sono chiamati a riflettere nel mondo nel quale vivono.
Qual è il primo carattere che ci viene in mente? L’amore.
“Dio è amore” (1 Gv 4:8,16).
Come amiamo noi i nostri fratelli?
Noi siamo chiamati ad amare perché Dio ci ha amati per il primo. Ma non solo quelli che ci sono simpatici, non solo quelli che la pensano come noi. Ma quelli che forse non ci sono simpatici e non sono amabili perché ci creano dei problemi.
Se amiamo solo quelli che ci amano e siamo amici solo di quelli che ci dimostrano amicizia, cosa facciamo di diverso dai pagani?
Anche i pagani amano coloro che li amano, diceva Gesù.
Siamo chiamati ad amare come Gesù amava. Dobbiamo farlo, prima con i fratelli con i quali non riusciamo ad andare d’accordo, poi con il prossimo in generale.
Quando leggiamo nell’Evangelo di Giovanni al capitolo 11 che Gesù amava Maria, Marta e Lazzaro, noi troviamo che nell’originale è impiegato il verbo agapao, che è quello che definisce l’amore divino che ama senza condizioni. Quando invece Lazzaro si ammalò e Marta e Maria mandarono a dire a Gesù: “Colui che tu ami è malato” (Gv 11:3) è impiegato il verbo fileo, che è una forma più attenuata che corrisponde a “volere bene”.
L’uomo non sa amare senza condizioni, non sa amare come Gesù amava, perché il suo amore non è quasi mai un riflesso dell’amore divino.
Eppure, quando l’apostolo Giovanni scrive: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità” (1Gv 3:18), esorta i credenti ad amare di un amore illuminato dalla luce divina ed è impiegato il verbo agapao.
E noi, come amiamo i nostri fratelli?
Fino a che punto?
Fino al prossimo dissidio o alla prossima incomprensione?
Oppure esercitiamo la nostra pazienza, dimenticando le offese e perdonando come Dio ci ha perdonati in Cristo?
“Gesù amò i suoi e li amò fino all’ultimo” (cfr. Gv 13). Fra queste persone, che egli amò così intensamente, vi era uno che di lì a poco lo avrebbe tradito, vendendolo per trenta denari, il prezzo di uno schiavo.
Vi era un altro che lo avrebbe rinnegato per tre volte, giurando di non averlo mai conosciuto. Altri due se ne sarebbero andati via da Gerusalemme, ripieni di delusione, dicendosi l’un l’altro: “Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele!” Uno di essi dirà ancora: “Vado a pescare”, e gli altri diranno: “Veniamo anche noi con te”.
Come intendiamo lo sfogo di Gesù: “Insensati e lenti di cuore!”? Cioè: “pazzi ed increduli”.
Questi erano gli uomini che Gesù amò ed amò fino alla fine, fino alle ultime conseguenze. A costoro, compresi Pietro e Giuda, laverà i piedi.
Per loro egli darà sé stesso sulla croce.
Gesù amò i suoi e li amò fino all’ultimo.
E noi, come amiamo i nostri fratelli?
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