Un proverbio inglese dice: «Ogni bisogno estremo dell’uomo è un’opportunità per Dio». A noi piace ripe­terlo, poiché lo crediamo vero. Tuttavia, quando ci tro­viamo ridotti all’estremo, siamo sovente troppo poco preparati per contare sull’opportunità di Dio. Una co­sa è affermare o ascoltare una verità, altra cosa è rea­lizzare la potenza di questa verità; una cosa è parlare del­la potenza di Dio in grado di proteggerci dalla tempe­sta quando navighiamo sul mare calmo, altra cosa è mettere questa potenza alla prova quando la tempesta infierisce intorno a noi. Eppure, Dio è sempre lo stesso.

Nella tempesta come nella calma, nella malattia come quando si sta bene, nella prova come nella prosperità, nella povertà come nell’abbondanza. «Gesù Cristo è lo stesso, ieri ed oggi e in eterno»: è la preziosa verità alla quale la fede può aggrapparsi in tutti i tempi e in tutte le circostanze.

Ma purtroppo siamo increduli, e l’incredulità è la causa di tante debolezze e cadute; siamo perplessi e agi­tati, quando dovremmo essere calmi e fiduciosi; lavo­riamo tutta la notte a gettare le reti da una parte e l’al­tra, quando dovremmo chiedere la direzione dall’alto; cerchiamo soccorso intorno a noi, quando dovremmo guardare al Signore Gesù. E in questo modo facciamo una grande perdita e disonoriamo il Signore nella no­stra vita.

Di tante mancanze dobbiamo umiliarci, ma quella più grave è la nostra mancanza di fiducia nel Signore quan­do le difficoltà e le prove si presentano; e questo afflig­ge certamente il suo cuore, poiché la diffidenza ferisce sempre un cuore che ama.

Considerate, per esempio, la scena di Giuseppe e i suoi fratelli, in Genesi 50: «I fratelli di Giuseppe, quando videro che il loro padre era morto, dissero: Chi sa se Giuseppe non ci porterà odio e non ci renderà tutto il male che gli abbiamo fatto? Perciò mandarono a dire a Giuseppe: Tuo padre, prima di morire, diede quest’ordine: Dite così a Giuseppe: Perdona ora ai tuoi fratelli il loro misfatto e il loro peccato; perché ti hanno fatto del male. Ti prego, perdona dunque ora il misfatto dei servi del Dio di tuo padre! Giuseppe, quando gli parlarono così, pianse» (v.15-17).

Questo atteggiamento di sfiducia era davvero grave se confrontato con tutto l’amore e le cure con le quali Giuseppe si era prodigato verso i suoi fratelli. Come po­tevano sopporre che lui, che li aveva così sinceramente e così pienamente perdonati, e che aveva salvato le loro vite quando erano completamente in suo potere, avreb­be potuto, dopo tanti anni di bontà, cambiare atteggia­mento e cercare la vendetta? Era un torto grave che fa­cevano al loro fratello, e non c’è da stupirsi che Giu­seppe abbia pianto quando gli parlarono così. Le lacrime furono la risposta alla loro infondata paura in­degna e alla loro maligna diffidenza. Tale è l’amore! E Giuseppe disse loro: «Giuseppe disse loro: Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso. Ora dunque non temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli. Così li confortò e parlò al loro cuore» (v. 19-21).

Avvenne la stessa cosa ai discepoli che si trovavano nella barca, sul mare in tempesta. «In quello stesso giorno, alla sera, Gesù disse loro: Passiamo all’altra riva. I discepoli, congedata la folla, lo presero, così com’era, nella barca. C’erano delle altre barche con lui. Ed ecco levarsi una gran bufera di vento che gettava le onde nella barca, tanto che questa già si riempiva. Egli stava dormendo sul guanciale a poppa» (Marco 4:35-38).

Abbiamo qui una scena interessante e istruttiva. I po­veri discepoli sono ridotti all’estremo, sono alla fine del­le risorse. La tempesta è violenta, la barca è piena d’ac­qua, il Signore dorme. Era un momento di prova, e non ci stupiamo che siano agitati, che abbiano paura; avrem­mo noi reagito diversamente se fossimo stati al loro po­sto?

Se, sganciati da ogni agitazione, consideriamo i fatti con obiettività, nulla ci pare più assurdo dell’incredu­lità. Nella scena della tempesta, l’incredulità dei disce­poli è irragionevole. Era mai possibile che la barca affon­dasse con sopra il Figlio di Dio? Ma la paura era gran­de perché le onde minacciavano d’inghiottire la fragile imbarcazione. Dal punto di vista umano erano persi, la situazione era disperata. Un cuore incredulo ragiona sempre così; esso guarda alle circostanze lasciando Dio da parte. La fede, invece, guarda a Dio e considera le circostanze alla luce della sua Parola.

Che differenza! La fede entra in attività quando l’uo­mo è all’estremo, semplicemente perché in quel caso c’è un’opportunità per Dio. Alla fede piace concentrarsi in Dio e trovarsi dove per la creatura c’è il vuoto, per la­sciare che il Creatore spieghi la sua gloria. È proprio quello il momento di raccogliere tanti vasi vuoti, come aveva fatto la povera vedova rimasta con poco olio (2 Re 4:1-7). Vasi vuoti affinché sia Dio a riempirli.

I discepoli avrebbero potuto addormentarsi vicino al loro divino Maestro, anche in mezzo alla tempesta. Era solo l’incredulità che li teneva in affanno; non riusciva­no a trovare riposo, e finirono per disturbare il sonno del Signore che, stanco del suo intenso lavoro, aveva il diritto di approfittare di quella traversata per riposarsi un po’. Ma anche i discepoli erano stanchi, e il Signore lo sapeva; Egli conosce le nostre debolezze e le nostre infermità, «poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato» (Ebrei 4:15).

Il Signore, uomo come noi, dormiva su un cuscino, cullato dalle onde del mare; c’era il Creatore in quella barca, nella persona di questo umile Servitore disprez­zato e stanco. Che mistero! Colui che aveva creato il ma­re, e poteva tenere i venti nella sua mano potente, dor­miva lì, nel fondo della barca, e permetteva al vento di trattarlo senza riguardi, come se fosse stato un uomo qualunque. Così, fu l’incredulità che fece svegliare il no­stro Signore: «I discepoli lo svegliarono e gli dissero: Maestro, non t’importa che noi moriamo?» . Che domanda! Non ti curi? Non ti interessa di noi, della nostra vita? Come deve aver ferito il cuor del Signore! Si poteva pen­sare che fosse indifferente alla loro angoscia in quel mo­mento di pericolo? Dovevano aver perso completa­mente di vista il suo amore e la sua potenza per fargli una tale domanda.

Eppure, caro lettore, non abbiamo qui uno specchio che riflette la nostra stessa debolezza? Quante volte, nei momenti di prova e di angoscia, nei nostri pensieri af­fiora quella stessa domanda: «Non ti curi tu?». Può dar­si che siamo malati e soffriamo, e sappiamo che una so­la parola di Dio potrebbe cacciare il male e guarirci; eppure non la pronuncia. O siamo in difficoltà econo­miche e sappiamo che l’oro, l’argento, tutte le cose del­la terra appartengono al nostro Padre; eppure la nostra situazione non cambia. «Signore, non ti curi tu?». Quante volte rattristiamo il cuore pieno d’amore del Si­gnore con la nostra incredulità e mancanza di fiducia! Come può, Colui che ha dato la sua vita per noi, che la­sciò la gloria per scendere in questo mondo di dolore e di miseria, e morire d’una morte ignominiosa per darci la vita eterna, come può non avere cura di noi?

Eppure siamo pronti a dubitare, e diventiamo impa­zienti senza pensare che proprio nella prova della no­stra fede, più preziosa dell’oro, noi impariamo le realtà durature delle ricchezze di Dio e la precarietà di quelle umane. La vera fede più è provata più diventa splen­dente. Ecco il motivo della prova; più essa è penosa, più andrà a lode, onore e gloria del Signore.

I poveri discepoli fallirono nell’ora della prova. La fiducia venne a mancare. Anch’essi, come molte volte noi, furono pronti a dimenticare diecimila atti di bontà in presenza d’una sola difficoltà. In un momento difficile Davide «disse in cuor suo: Un giorno o l’altro io perirò per mano di Saul» (1 Samuele 27:1). Ma quale fu la conclusione? Saul morì sul monte Ghilboa, e Davide di­venne re d’Israele. Il profeta Elia, alla minaccia di Ize­bel, «se ne andò per salvarsi la vita... ma egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino,... ed espresse il desiderio di morire» (1 Re 19:3-4). Ma cosa avvenne? Izebel fu gettata dalla finestra della sua camera e i cani lecca­rono il suo sangue, ma Elia fu rapito da un carro di fuo­co e portato in cielo.

Fu così anche per i discepoli: pensavano di essere per­duti, pur avendo a bordo il Figlio di Dio; ma il vento cessò e il mare ritornò calmo alla voce di Colui che ave­va un giorno chiamato i mondi all’esistenza. «Egli, svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: Taci, càlmati! Il vento cessò e si fece gran bonaccia».

C’è qualcosa di molto bello nel modo con cui il no­stro prezioso Salvatore interrompe il riposo della sua perfetta umanità per agire nella potenza della sua divi­nità. Come uomo, stanco del lavoro, dorme su un guan­ciale; come Dio si alza e con la sua voce potente fa ta­cere il vento impetuoso.

Tale era il Cristo, vero Dio e vero uomo; e tale Egli è ancora oggi, sempre pronto a rispondere ai bisogni dei suoi, a far tacere le loro ansie e allontanare i loro timo­ri. Confidiamo in Lui. Rendiamoci conto di quello che perdiamo se non ci appoggiamo su di Lui con più con­vinzione e perseveranza; ogni soffio di vento, ogni on­da, ogni nuvola ci agita e ci deprime. Se non rimaniamo calmi vicini al nostro Signore, saremo sempre pieni di perplessità e di terrori; al minimo dubbio che sorge pen­seremo di soccombere, anche se Egli ci assicura che per­sino i capelli del nostro capo sono tutti contati. Quanti motivi ha per dirci, come ai suoi discepoli: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». In ef­fetti, noi non abbiamo fede, ma il suo tenero amore è sempre pronto a soccorrerci e a proteggerci, anche se i nostri cuori increduli sono così sovente portati a dubi­tare della sua parola. Egli non agisce verso di noi se­condo quello che noi pensiamo di Lui, ma secondo il suo perfetto amore per noi. È su questo amore che dob­biamo appoggiarci per essere riconfortati attraversan­do il mare agitato. Cristo è nella barca con noi, e questo ci deve bastare.

Possiamo ancora notare quale fu l’atteggiamento dei discepoli dopo il miracolo compiuto dal Signore. Inve­ce di adorarlo e ringraziarlo, si mostrarono sorpresi, e anche impauriti dal rimprovero ricevuto e dalla poten­za del Signore. Che non sia questo il nostro atteggia­mento; ricordiamoci di ringraziarlo per le risposte che ci dà e non cessiamo di adorarlo per la sua potenza e il suo amore per noi.

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Inviato da Gianni57 il

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