Nella famiglia e nella chiesa quale efficacia può avere un insegnamento verso le nuove generazioni che non sia accompagnato da un coerente esempio di vita? In quale modo il Signore ci chiama a vivere l’impegno educativo e formativo nei confronti di coloro che Egli ha affidato alle nostre cure? Come stiamo vivendo quest’impegno: in modo responsabile oppure in modo superficiale?
Preoccuparsi delle nuove generazioni
Ognuno è chiamato a rispondere delle proprie scelte davanti a Dio. I figli non risponderanno per i padri, i padri non risponderanno per figli (Ezechiele 18:20). Tuttavia la Scrittura incoraggia ogni generazione a lasciare un buon esempio a quelle successive.
Se gli scandali possono essere causa di caduta […], il buon esempio può essere una straordinaria arma a nostra disposizione per incoraggiare i più giovani a cercare Dio e ad avere una buona relazione con Lui. A questo proposito, ricordo queste parole di Rinaldo Diprose: “Infatti se il comportamento di un credente non rispecchia la sua professione di fede, chi non ha ancora fatto il passo decisivo di fede rischia di inciampare a causa di una tale incoerenza e così restare privo della grazia di Dio. D’altra parte, una vita convincente favorisce la totale guarigione, salvezza, del simpatizzante ” […].
Fatti, non solo parole
“Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (Deuteronomio 6:6-7).
“Soltanto, bada bene a te stesso e guardati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Deuteronomio 4:9).
Dopo l’esperienza nel deserto, Mosè ricordò i comandamenti di Dio alla nuova generazione di Israeliti che si apprestava ad entrare nella terra promessa e, in particolare, li esortò a prestare attenzione alla testimonianza verso le future generazioni.
Nel primo passo viene sottolineata l’importanza di interiorizzare la Parola di Dio in modo che permei ogni istante della nostra vita, cogliendo ogni occasione per trasmetterla ai nostri figli.
Nel secondo passo viene espressa l’importanza dell’esperienza di chi ha fatto un cammino con Dio, la necessità di non dimenticare le opere che Dio ha fatto, tenendo vivo il ricordo e trasmettendolo ai posteri.
Questi principi sono validi per il popolo di Dio anche oggi.
Se vogliamo trasmettere in maniera efficace la nostra fede ai posteri, dobbiamo proporre loro un insegnamento basato sulla Parola di Dio, una Parola che deve però essere interiorizzata, deve essere parte integrante della nostra vita.
L’esperienza con Dio deve affiancarsi alla teoria in modo che la nostra fede si esprima, usando ancora la bella espressione di Rinaldo Diprose, in una vita convincente, frutto del cammino fatto con il Signore.
Leggendo la seconda lettera di Paolo a Timoteo si ha proprio l’impressione che la mamma e la nonna di Timoteo abbiano agito secondo questi principi: “Ricordo in fatti la fede sincera che è in te, la quale abitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice, e, sono convinto, abita pure in te” (2 Timoteo 1:5).
“Tu, invece, persevera nelle cose che hai imparate e di cui hai acquistato la certezza, sapendo da chi le hai imparate, e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù” (2 Timoteo 3:14-15).
In questi due brani risulta evidente che Loide ed Eunice hanno insegnato le Sacre Scritture a Timoteo fin da bambino e questo gli ha permesso di acquisire quella “sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù”.
Ma in quale modo Eunice e Loide hanno trasmesso la fede sincera a Timoteo?
Paolo usa la frase “sapendo da chi le hai imparate” che richiama proprio l’esempio pratico che Timoteo ha ricevuto da coloro che gli hanno insegnato i principi del Vangelo.
Nell’altro brano letto, Paolo si riferisce alla “fede sincera” di Timoteo che ripercorreva le orme di Loide ed Eunice, suggerendo proprio che l’esempio delle due donne giocò un ruolo importante nella formazione di Timoteo. Il termine “sincera” traduce un termine che letteralmente significa “non ipocrita”. Sembra quindi ovvio che Loide ed Eunice non si erano comportate da ipocrite, recitando una parte (il termine veniva usato per gli attori che recitavano in teatro), ma avevano trasmesso a Timoteo una fede genuina attraverso la loro sincera devozione a Dio, il loro amore, il loro comportamento, ovvero proprio attraverso una vita convincente.
Non dobbiamo pensare di aver assolto alla nostra funzione, trasmettendo solo delle nozioni ai nostri figli o dando loro dei buoni consigli. Essi hanno bisogno di ricevere da noi un insegnamento basato sulle Scritture, ma hanno bisogno anche di vederlo messo in pratica attraverso la nostra fede sincera.
Hanno bisogno di ascoltare ma anche di vedere! Altrimenti, falliremo proprio nella parte più importante dell’educazione perché l’incoerenza tra teoria e pratica nella nostra vita può minare in maniera seria la nostra credibilità e quindi la nostra autorità come genitori. Ad esempio, quale efficacia potrebbe avere dire ai propri figli che non fa bene guardare troppa televisione se poi noi passiamo ore e ore a guardarla sotto i loro occhi? Oppure, che senso avrebbe se un padre fumatore, magari con la sigaretta accesa in mano, dicesse al figlio: “Mi raccomando, tu non prenderti questo brutto vizio perché fumare fa male alla salute !”? Se il padre comunque non smette, perché il figlio non dovrebbe cominciare? E quale efficacia avrebbe una madre che sgrida suo figlio perché dice parolacce in pubblico, mentre lei stessa, in privato e davanti ai propri figli, usa un linguaggio scurrile?
Questi sono solo alcuni tipici esempi di come spesso si sottovaluti la forza del buon esempio come migliore arma a disposizione per educare i propri figli.
La Scrittura ci esorta così: “Insegna al ragazzo la condotta che deve tenere; anche quando sarò vecchio non se ne allontanerà” (Proverbi 22:6).
Ma come possiamo insegnare una condotta da tenere se noi stessi non teniamo quella condotta?
Se i fatti non accompagnano le nostre parole, abbiamo scarse possibilità che tali parole abbiano un effetto nella vita dei nostri figli.
Quali sono le nostre priorità?
Se il principio della coerenza tra parole e fatti è importante per tutti i genitori, indipendentemente dalla loro fede, credo che i genitori cristiani dovrebbero fare ancora più attenzione a questo aspetto.
Il modo in cui viviamo la nostra fede, nel bene e nel male, è sotto gli occhi dei nostri figli. Se siamo persone che in casa fanno maldicenza davanti ai propri figli o usiamo un linguaggio incoerente con la nostra professione di fede, essi lo vedranno.
Se insegniamo loro che bisogna amare il prossimo ma ci giriamo sempre dall’altra parte quando qualcuno ci chiede aiuto, essi lo vedranno.
Il nostro modo di vivere parlerà ai nostri figli molto più forte delle nostre parole.
In particolare i nostri figli vedranno quali sono le nostre priorità.
Se parliamo loro di Dio, ma tutta la nostra attenzione è rivolta alla carriera e ai nostri beni terreni, essi se ne accorgeranno. Se Dio non è poi così importante per la nostra vita, perché dovrebbe esserlo per la loro?
La generazione di Giosuè, quella a cui Mosè si rivolse nei brani citati in precedenza (Deuteronomio 4:9, 6:6-7) fallì miseramente nel trasmettere ai propri figli il timore di Dio. Leggiamo infatti: “Anche tutta quella generazione fu riunita ai suoi padri; poi, dopo quella, vi fu un’altra generazione che non conosceva il SIGNORE, né le opere che Egli aveva compiute in favore d’Israele. I figli d’Israele fecero ciò che è male agli occhi dei SIGNORE e servirono gli idoli di Saal, abbandonarono il SIGNORE, il Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto...” (Giudici 2:10-12).
Quando leggo questi versi nel libro dei Giudici, rimango sbalordito.
Il grande condottiero Giosuè aveva portato a compimento ciò che Mosè aveva cominciato, portando il popolo di Israele nella terra di Canaan, la terra promessa ad Abramo. La generazione di Giosuè aveva sperimentato grandi vittorie, aveva visto da vicino l‘opera di Dio e verrebbe da pensare che essi non avrebbero mai smesso di parlarne ai propri figli. Eppure essi non riuscirono a trasmettere neanche alla generazione seguente le “opere che Egli aveva compiute in favore d’Israele”. Infatti i loro figli non conoscevano il Signore e cominciarono a servire gli idoli locali.
Sembra strano vero?
Ma nel giudicare quella generazione stiamo attenti perché potremmo trovarci a giudicare noi stessi.
Quella generazione di Israeliti, dopo essersi insediata in Canaan, ha semplicemente costruito le proprie case, si è arricchita, ha cominciato a stare un po’ più comoda e, a quel punto, non era stato difficile dare per scontato ciò che Dio aveva fatto nel passato, concentrandosi sul benessere che sperimentavano nel presente, proprio l’atteggiamento circa il quale il Signore li aveva messi in guardia tramite Mosè (Deuteronomio 8:11-14).
Siamo onesti. Non corriamo noi lo stesso rischio di quella generazione?
- Non rischiamo di farci prendere dall’agio tipico del nostro secolo, perdendo di vista le nostre priorità come discepoli di Cristo e quindi fallendo nel trasmettere anche ai nostri figli le giuste priorità?
- I nostri figli vedono in noi vera riconoscenza per ciò che Dio ha fatto, vedono la Sua influenza in ogni aspetto della nostra vita, o la nostra fede sembra piuttosto qualcosa a cui dedichiamo qualche ora ogni tanto, magari in un locale di culto?
- I nostri figli hanno la sensazione che siamo più interessati ai voti che prendono a scuola piuttosto che alla loro relazione con Dio?
- Diamo loro la sensazione di essere più preoccupati per la loro vita lavorativa che per le loro scelte di fede?
- Siamo più preoccupati di vederli “sistemati” piuttosto che di vederli onorare e servire Dio?
Non illudiamoci. Come accadde alla generazione di Giosuè, saranno le nostre priorità nella vita ad influenzare i nostri figli più dei nostri discorsetti religiosi.
Tale padre, tale figlio?
Normalmente, come si usa dire, il frutto non cade mai molto lontano dall’albero...
Così, purtroppo, molti figli ripercorrono proprio la strada tracciata dai propri genitori.
I figli di persone che hanno avuto problemi con la legge spesso finiscono per commettere gli stessi errori.
I figli di genitori che hanno avuto grossi problemi matrimoniali, di frequente finiscono con il manifestare tali problemi anche nel proprio matrimonio.
Gli esempi negativi possono influenzare molto un figlio, tuttavia può essere incoraggiante considerare che Dio, nella Sua grazia, può ottenere frutti insperati anche lì dove non ci sono buoni esempi.
È incoraggiante, a questo proposito, la storia biblica di Giosia che ha avuto due pessimi esempi nel nonno Manasse e nel padre Amon. Tuttavia, quando era ancora ragazzo, egli cominciò a cercare Dio (2 Cronache 34:3).
Purtroppo, a volte è vero anche il contrario: un buon esempio non è sufficiente a impedire che un figlio percorra la strada della ribellione. Ad esempio, Sallum, Eliachim e Sedechia, figli di Giosia, non seguirono le buone orme del padre ma furono tutti ribelli al Signore.
Anche se il vecchio proverbio “tale padre, tale figlio” è vero in molti casi, non possiamo quindi trarne una regola generale. A volte non basta essere dei buoni esempi per i propri figli per evitare che essi prendano delle strade negative. Allo stesso modo, grazie a Dio, ci sono figli che non hanno avuto buoni esempi in famiglia eppure hanno cercato e trovato il Signore. Questo conferma che i padri non potranno rispondere per i figli e i figli non potranno rispondere per i padri. Ognuno risponderà a Dio per il proprio peccato.
Questo però non significa che non valga la pena lasciare un buon esempio, anzi come genitori cristiani siamo ancora più stimolati a tare tutto il possibile per non essere un ostacolo sul percorso dei nostri figli. Potrebbe essere molto triste osservare dei figli che si allontanano da Dio nonostante il nostro esempio di fede, ma sarebbe ancora più triste essere coscienti di aver contribuito a tale allontanamento con il nostro cattivo esempio.
Principi validi per tutti
Questi principi non sono validi solo per chi ha figli. Infatti se siamo dei discepoli di Cristo maturi, abbiamo comunque la responsabilità di essere di esempio alle generazioni più giovani.
Paolo scrisse a Tito: “Esorta ugualmente i giovani a essere saggi, presentando te stesso in ogni cosa come esempio di opere buone; mostrando nell’insegnamento integrità, dignità, linguaggio sano, irreprensibile, perché l’avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire contro di noi” (Tito 2:6-8).
Insegnare non solo con la parole ma attraverso l’esempio è proprio la caratteristica di un vero discepolato cristiano. Infatti la parola discepolo significa letteralmente “uno che impara” ma il discepolo, come era inteso anche ai tempi di Gesù, imparava stando a stretto contatto con il maestro, assorbendone le parole ma anche l’esempio di vita.
Gesù fece proprio così con i propri discepoli, come riassume la famosa frase che disse dopo aver lavato loro i piedi: “Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto Io” (Giovanni 13:15).
Se pensiamo alla chiesa come ad una famiglia più allargata, ci rendiamo conto che, proprio come in famiglia, non saranno le parole e i buoni consigli a fare la differenza, ma la pratica cristiana che i giovani vedranno in coloro che hanno più esperienza nella fede.
Ci stiamo davvero preoccupando di formare la prossima generazione di uomini e donne trasmettendo loro un amore vero per il Signore o stiamo trasmettendo solo una religione che non intacca il nostro stile di vita?
In un mondo sempre più lontano da Dio, sempre più lanciato verso la sua fine, abbiamo una grande responsabilità verso la generazione che viene dopo di noi. Il più bel regalo che possiamo fare a nostro figlio o ad un credente più giovane è dargli un buon esempio.
Omar Stroppiana
maggio 2015 www.ilcristiano.it
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