L'Uomo ha imparato, e continua in questo esercizio, a bastare a se stesso. In tante questioni l'ausilio dell'ipotesi di lavoro "Dio", non risponde più alle innumerevoli domande che egli si è posto nel corso della sua esistenza.
In ogni ambito scientifico, culturale, etico, Dio è lentamente "sparito". Tale processo è così avanzato che anche in ambito religioso questo pare paradossalmente essere avvenuto. Si tratta di un ateismo di fatto.
Che non sia proprio questo il profetico ammonimento che Gesù rivolge alla chiesa in Apocalisse 3:20: "io sono alla porta è busso"?
Un messaggio che spesso sentiamo rivolgere al "non credente". Eppure Gesù qui parla alla chiesa!
Di seguito la questione affrontata, in maniera abbozzata e incompleta seppur complessa (non avrà il tempo di finire molte riflessioni iniziate nel carcere nazista di Tegel), del fratello Bonhoeffer.
Bonhoeffer si pone il problema di come la fede possa sopravvivere in un !mondo diventato adulto! ed insieme a lui anche la religione, dove "Dio non è più necessario", e quindi è escluso.
Ad Eberhard Bethge [Tegel] 8 giugno 1944
Caro Eberhard, mentre tu sei in treno, in queste prime ore di viaggio, e ti allontanerai sempre di più da noi di ora in ora, il mio pensiero ti accompagna e forse questa lettera arriverà alla tua nuova destinazione nello stesso momento in cui arriverai tu. È stata per me una grande gioia aver ricevuto questa mattina un’altra tua lettera.
Mi ha tranquillizzato il fatto che tu sia stato contento al pari di me per il nostro incontro, perché mi era venuto lo scrupolo di averti sottratto quell’intero pomeriggio… Inoltre, per diversi motivi sarai partito con un cuore più leggero di quanto in un primo momento avevi temuto. Avevamo rinviato la possibilità di rivederci da Natale a Pasqua e quindi alla Pentecoste, e le feste passavano una dietro l’altra.
Ma la prossima è nostra di sicuro, non ne ho più dubbi. È bello che tu abbia rivisto Karl Friedrich.
Mi ha scritto un’altra lettera molto bella. Per Klaus è difficile trovare lo slancio, dopo tutto questo tempo. So in effetti che non si tratta di freddezza di cuore… Klaus ha ereditato la tendenza della mamma a complicare le cose e il suo bisogno naturale di essere d’aiuto, e inoltre la prudenza straordinariamente avveduta del babbo…
Niente in pratica è tanto stimolante quanto parlare con lui, e mi è difficile immaginare un carattere più magnanimo, generoso e nobile del suo, ma non è l’uomo per le… decisioni semplici della vita… Ci sono sempre motivi per non fare qualcosa; la questione è solo se farlo nonostante ciò. Se uno volesse fare solo quelle cose che hanno tutti i motivi a favore, non arriverebbe mai all’azione, ovvero quest’ultima non sarebbe più necessaria, perché altri gli avranno sottratto la possibilità di farla. Ma ogni vera azione è tale che nessun altro, ma solo tu stesso puoi farla.
A dire il vero mi è chiaro che questo discorso devo farlo anzitutto a me stesso, perché tu sai benissimo quanto difficile mi sia spesso decidermi in questioni di scarsa importanza. Del resto dev’esser qualcosa che ho ereditato da mio nonno Bonhoeffer. Mi hanno fatto molto piacere i saluti di Sabine e di G (di ambedue non avevo ancora nessuna notizia… e ne avevo chiesto spesso!). Tu poni domande così numerose e rilevanti in relazione alle idee che mi stanno impegnando in questi ultimi tempi, che sarei contento di poter rispondere io stesso.
Si tratta ancora solo dei primissimi passi, e come spesso mi accade sono guidato dall’istinto per le questioni che stanno per emergere piuttosto che dall’aver raggiunto la chiarezza a loro riguardo. Voglio provare ad indicare ora la mia posizione dal punto di vista storico. Il movimento nella direzione dell’autonomia dell’uomo (intendo con questo la scoperta delle leggi secondo le quali il mondo vive e basta a se stesso nella scienza, nella vita della società e dello Stato, nell’arte, nell’etica e nella religione), che ha inizio (non voglio entrare nella discussione sulla data precisa) all’incirca col XIII secolo, ha raggiunto nel nostro tempo una certa compiutezza.
L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’“ipotesi di lavoro: Dio”. Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte e l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza “Dio”, e non meno bene di prima.
Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano “Dio” viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno. Ora, la storiografia cattolica e quella protestante sono d’accordo nel ritenere che in questa evoluzione si debba vedere il grande distacco da Dio e da Cristo; e quanto più esse chiamano in causa e si servono di Dio e di Cristo contro questa evoluzione, tanto più questa stessa evoluzione si autocomprende come anticristiana.
Il mondo che ha raggiunto la consapevolezza di se stesso e delle leggi che regolano la sua vita è talmente sicuro di sé che la cosa ci risulta inquietante; qualche difetto di crescita e qualche fallimento non possono trarre in inganno il mondo sulla necessità della sua strada e della sua evoluzione; tutto questo viene messo in conto con virile freddezza e nemmeno un evento come questa guerra rappresenta un’eccezione. Contro questa sicurezza di sé l’apologetica cristiana è scesa in campo in diverse forme. Si cerca di dimostrare al mondo divenuto adulto che non può vivere senza il tutore “Dio”. Nonostante la già avvenuta capitolazione davanti a tutte le questioni mondane, restano tuttavia le cosiddette “questioni ultime” – la morte, la colpa – cui solo “Dio” può dare una risposta, e per le quali c’è bisogno di Dio, della Chiesa e del pastore.
Noi viviamo dunque in certa misura delle cosiddette questioni ultime dell’uomo. Ma che cosa accadrà quando esse un giorno non esisteranno più come tali, ovvero quando anch’esse troveranno risposta “senza Dio”? A questo punto intervengono gli epigoni secolarizzati della teologia cristiana, cioè i filosofi esistenzialisti e gli psicoterapeuti, e dimostrano all’uomo sicuro, soddisfatto, felice, che in realtà è infelice e disperato solo che non vuole riconoscere di trovarsi in una situazione sventurata, di cui non sapeva nulla e da cui solo loro possono salvarlo. Dove c’è salute, forza, sicurezza, semplicità, essi fiutano un dolce frutto da rodere o in cui depositare le loro malefiche uova. Essi mirano anzitutto a spingere l’uomo in una situazione di disperazione interiore, e poi hanno partita vinta. Questo è metodismo secolarizzato. E con chi riesce? Con un piccolo numero di intellettuali, di degenerati, di quelli che si credono di essere la cosa più importante al mondo e perciò si occupano volentieri di se stessi. L’uomo semplice, che trascorre la sua vita quotidiana tra lavoro e famiglia, certo con deviazioni di ogni genere, non ne è coinvolto.
Non ha né tempo né voglia di occuparsi della sua disperazione esistentiva e di considerare la sua felicità magari modesta sotto l’aspetto della “tribolazione”, della “cura”, della “sventura”. Ritengo questi attacchi dell’apologetica cristiana contro la maggior età del mondo: primo, privi di senso; secondo, di scadente qualità; terzo, non cristiani. Privi di senso, perché mi sembrano il tentativo di far tornare al periodo della pubertà qualcuno che è già diventato uomo, cioè di renderlo dipendente da cose dalle quali di fatto non dipende più, e di cacciarlo in problemi che per lui di fatto non sono più tali. Di scadente qualità, perché qui si cerca di sfruttare la debolezza di una persona per scopi che le sono estranei e che non ha accettato liberamente. Non cristiani, perché Cristo viene scambiato con un determinato livello della religiosità dell’uomo, cioè con una legge umana. Su questo tornerò più ampiamente in seguito. Intanto qualche parola ancora sulla situazione storica. La questione è questa: Cristo e il mondo divenuto adulto.
È stata la debolezza della teologia liberale quella di aver concesso al mondo il diritto di assegnare a Cristo il posto spettantegli al suo interno; nel conflitto tra Chiesa e mondo ha accettato le condizioni di pace – relativamente miti – dettate dal mondo. La sua forza è stata quella di non aver cercato di far tornare indietro la storia, e di aver accettato realmente il confronto (Troeltsch!) anche se questo si è chiuso con la sua sconfitta.
Alla sconfitta fece seguito la capitolazione e il tentativo di un inizio completamente nuovo, basato sulla riflessione sui propri specifici fondamenti contenuti nella Bibbia e nella Riforma.
Heim ha compiuto il tentativo pietista-metodista di convincere il singolo di trovarsi davanti all’alternativa “o disperazione o Gesù”. Egli ha guadagnato dei “cuori”.
Althaus (che ha sviluppato la linea positivo-moderna conferendole un deciso orientamento confessionale) ha tentato di strappare al mondo uno spazio per la dottrina luterana (del ministero) e per il culto luterano, lasciando per il resto il mondo a se stesso.
Tillich ha cercato di interpretare religiosamente l’evoluzione stessa del mondo (contro la sua volontà) e di determinare la sua forma attraverso la religione.
È stato un tentativo di grande valore, ma il mondo lo ha disarcionato, proseguendo da solo; anch’egli ha voluto comprendere il mondo meglio di quanto si comprendesse esso stesso; ma il mondo s’è sentito completamente frainteso e ha respinto una simile pretesa. (Indubbiamente il mondo deve essere compreso meglio di quanto si comprenda esso stesso, ma appunto non “religiosamente”, come volevano i socialisti religiosi!).
Barth è stato il primo a riconoscere che l’errore di tutti questi tentativi (che in fondo, senza volerlo, navigavano ancora nella corrente della teologia liberale) consisteva nel voler mantenere nel mondo o contro il mondo uno spazio per la religione. Contro la religione egli fece scendere in campo il Dio di Gesù Cristo, πνειμα contro σαρξ. Questo resta il suo più grande merito (seconda edizione del Römerbrief [L’epistola ai Romani], nonostante tutti i residui neokantiani).
In seguito, con la Dogmatik (Dogmatica) ha messo la Chiesa in condizione di elaborare compiutamente questa distinzione, a livello di principi, su tutta la linea.
Dunque non è nell’etica che ha fallito, come spesso si dice – le sue elaborazioni etiche, nella misura in cui si danno, sono tanto rilevanti quanto quelle dogmatiche –; ma è nell’interpretazione non religiosa dei concetti teologici che non ha fornito alcuna indicazione concreta, tanto nella dogmatica quanto nell’etica. Questo è il suo limite, e la sua teologia della rivelazione diventa pertanto “positivismo della rivelazione”, come ho già detto.
La Chiesa confessante ha semplicemente dimenticato in larga misura l’impostazione barthiana e dal positivismo è caduta nella restaurazione conservatrice. La sua importanza sta nel mantenere i grandi concetti della teologia cristiana, ma sembra quasi che in questo essa si stia progressivamente esaurendo. Certamente in questi concetti sono contenuti gli elementi tanto dell’autentica profezia (tra questi rientrano sia la pretesa della verità, sia la misericordia, di cui tu parli), quanto del culto autentico, e in questa misura la parola della Chiesa confessante trova in generale solo attenzione, ascolto o rifiuto.
Ma ambedue questi elementi restano non sviluppati e lontani, perché ad essi manca l’interpretazione. Quelli che a questo punto avvertono – come ad es. P. Schütz, gli oxfordiani o i Berneuchener – la mancanza del “movimento” e della “vita”, sono pericolosi, retrogradi reazionari perché tornano indietro rispetto all’impostazione della teologia della rivelazione in generale e cercano un rinnovamento “religioso”.
Essi non hanno ancora capito nulla del problema ed il loro discorso manca del tutto il bersaglio. Non hanno proprio futuro (tutt’al più gli oxfordiani, se non fossero così privi di sostanza biblica).
Ora Bultmann sembra aver avvertito in qualche modo il limite di Barth, ma lo fraintende nel senso della teologia liberale, e cade perciò nel procedimento tipicamente liberale della riduzione (gli elementi “mitologici” del cristianesimo vengono eliminati e il cristianesimo viene ridotto alla sua “essenza”).
Ora io sono del parere che tutti i contenuti, compresi i concetti “mitologici”, devono restare – il Nuovo Testamento non è il rivestimento mitologico di una verità universale, bensì questa mitologia (la resurrezione ecc.) è la cosa stessa! – ma che questi concetti devono essere interpretati in un modo che non presupponga la religione come condizione della fede (cfr. la περιτομή in Paolo!).
Solo così a mio giudizio la teologia liberale (dalla quale anche Barth è ancora condizionato, sia pure negativamente) viene superata, ma nel contempo la sua problematica viene effettivamente assunta e riceve risposta (ciò che non avviene nel positivismo della rivelazione della Chiesa confessante). La maggiore età del mondo allora non è più occasione di polemica e di apologetica, ma viene realmente compresa meglio di quanto non si comprenda essa stessa, e cioè a partire dall’evangelo, da Cristo. E adesso la tua domanda, dove resti “spazio” per la Chiesa, se esso non vada completamente perduto, e anche l’altra, se Gesù stesso non si sia riallacciato alla “tribolazione” umana, col che il “metodismo” precedentemente criticato troverebbe giustificazione.
Bonhoeffer, Dietrich. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere . San Paolo Edizioni. Edizione del Kindle.
.... E ora voglio tentare di sviluppare ulteriormente i temi teologici recentemente interrotti. Io partivo dal fatto che Dio viene spinto sempre più fuori da un mondo diventato adulto, dall’ambito della nostra conoscenza e della nostra vita, e che da Kant in poi ha conservato uno spazio solo al di là del mondo dell’esperienza. La teologia si è da una parte opposta apologeticamente a questa evoluzione, e ha dato l’assalto – vanamente – al darwinismo ecc.; dall’altra si è aggiustata con questa evoluzione facendo giocare a Dio solo più il ruolo del deus ex machina in relazione alle cosiddette questioni ultime; Dio cioè diventa la risposta alle questioni esistenziali, diventa la soluzione delle pene e dei conflitti della vita.
Se dunque un uomo non ha nulla di simile da esibire, ovvero si rifiuta di entrare in tali questioni e di farsi compiangere, allora per Dio egli è effettivamente inaccessibile, oppure si deve dimostrare a quest’uomo privo di questioni esistenziali che, senza ammetterlo e senza saperlo, in realtà è profondamente immerso in questi problemi, miserie, conflitti ecc. Se ciò riesce – e sia la filosofia esistenzialistica che la psicoterapia hanno elaborato in tal senso metodi raffinatissimi – solo allora quest’uomo diventa accessibile a Dio, e il metodismo può celebrare il suo trionfo. Se non si riesce a condurre quest’uomo a considerare e a designare la sua felicità come una sciagura, la sua salute come malattia, la sua forza vitale come disperazione, allora il latinorum dei teologi non serve più a nulla. Si ha a che fare o con un peccatore incallito dalla natura particolarmente malvagia, oppure con un’esistenza “borghesemente satura”; il primo è tanto lontano dalla salvezza quanto la seconda. Vedi, questo è l’atteggiamento spirituale contro il quale voglio oppormi.
Se Gesù ha fatto beati dei peccatori, si trattava però di veri peccatori; ma Gesù non ha fatto come prima cosa di ogni uomo un peccatore. Egli li ha chiamati fuori dai loro peccati, non ve li ha fatti entrare. Certamente l’incontro con Gesù significava il rovesciamento di ogni valutazione umana. Così è stato per quanto riguarda la conversione di Paolo. In questo caso però l’incontro con Gesù precedeva il riconoscimento del peccato.
Certamente Gesù si è preso cura di esistenze che si trovavano ai margini della società umana: prostitute, pubblicani; ma tuttavia assolutamente non solo di loro, perché egli ha voluto prendersi cura degli uomini in generale. Gesù non ha mai messo in questione la salute, la forza, la felicità di un uomo in quanto tali, né li ha considerati dei frutti bacati; perché altrimenti avrebbe risanato i malati, ridato forza ai deboli? Gesù rivendica per sé e per il Regno di Dio la vita umana tutt’intera e in tutte le sue manifestazioni. Dovevano naturalmente interrompermi proprio adesso! Fammi formulare velocemente ancora una volta il tema che mi sta a cuore: la rivendicazione del mondo divenuto adulto da parte di Gesù Cristo. Per oggi non posso scrivere oltre, perché altrimenti la lettera resta di nuovo in giacenza per una settimana, e vorrei evitarlo.
Dunque, il resto a dopo. È stato qui lo zio Paul, mi ha fatto chiamare immediatamente dabbasso ed è rimasto – Maetz e Maass erano presenti – più di 5 ore! Ha fatto arrivare quattro bottiglie di spumante, cosa assolutamente unica negli annali della casa, e si è comportato con una generosità e gentilezza di cui non l’avrei mai creduto capace. Ha voluto mettere in chiaro con molta ostentazione qual è il suo atteggiamento nei miei confronti e che cosa si aspetta dal pauroso e pedante M. Mi ha fatto impressione questa indipendenza, che in ambienti civili sarebbe del tutto impensabile. Inoltre c’è anche da dire di una storiella carina che mi ha raccontato: a St. Privat un alfiere ferito grida ad alta voce: «Sono ferito, viva il re!». Al che il generale von Löwenfeld, ferito anch’egli: «Zitto, alfiere, qui si muore in silenzio!». – Son curioso di vedere gli effetti che avrà qui questa visita, voglio dire sul giudizio della gente. Allora, stammi bene e perdona questa lettera interrotta. Penso che comunque sia meglio di niente. Spero che all’inizio dell’autunno saremo di nuovo insieme. Ricordandoti con fedeltà e gratitudine, e pregando per te quotidianamente, ti saluta di cuore il tuo Dietrich
Bonhoeffer, Dietrich. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere . San Paolo Edizioni. Edizione del Kindle.
8 luglio 1944 Tegel
Adesso qualche pensiero sul nostro tema. Illustrare il lato biblico della questione richiede una chiarezza e una concentrazione di pensiero maggiore di quella che attualmente possiedo. Aspetta solo qualche giorno, finché sarà più fresco! Inoltre, non ho dimenticato che ti devo qualcosa a proposito dell’interpretazione non religiosa dei concetti biblici. Ma per oggi intanto ancora qualche considerazione preliminare. Il fatto che Dio sia stato allontanato dal mondo, dalla dimensione pubblica dell’umana esistenza, ha portato al tentativo di mantenerlo presente ancora almeno nell’ambito del “personale”, dell’“interiore”, del “privato”. E siccome ogni uomo ha ancora da qualche parte una sfera del privato, s’è creduto di poterlo attaccare su questo punto con la massima facilità. I segreti del lacché – per dirla in modo rozzo – cioè l’ambito dell’intimità (dalla preghiera alla sessualità) – sono diventati il terreno di caccia dei moderni responsabili di cura d’anime. In questo assomigliano (pur essendo la loro intenzione completamente diversa) ai peggiori giornalisti scandalistici – ti ricordi della Wahrheit (Verità) e della Glocke (Campana)?499 – che mettono a nudo l’intimità dei personaggi più in vista; in questo caso, per ricattare la gente sul piano sociale, finanziario, politico; nell’altro, per ricattarli sul piano religioso. Perdonami, ma non posso metterla in termini meno duri. Dal punto di vista sociologico, si tratta di una rivoluzione dal basso, di una rivolta della mediocrità. Come l’opinione volgare non viene a capo della personalità di una persona eminente se non immaginandosi l’interessato “nella vasca da bagno” o in altre situazioni imbarazzanti, così accade anche in questo caso.
È una forma di maligna soddisfazione sapere che tutti hanno i loro difetti e i loro punti deboli. Nei rapporti che ho avuto con gli “outcasts” – i “paria” – della società, mi ha sempre colpito che per loro la diffidenza è l’elemento determinante in ogni giudizio dato su altre persone. Qualsiasi azione di un uomo in vista, anche la più disinteressata, è a priori oggetto di sospetto. Del resto, questi “outcasts” si trovano in tutti i ceti. Anche in un giardino essi cercano il letame da cui crescono i fiori. Quanto più un uomo è privo di legami, tanto più facilmente cade in questo atteggiamento. Esiste anche un’assenza di legami degli uomini di Chiesa, quello che noi chiamiamo atteggiamento “pretesco”, quell’andar fiutando le tracce dei peccati degli uomini per riagguantarli. È come se uno arrivasse a conoscere una bella casa solo quando avesse trovato le gattabuie dell’ultima cantina, e se potesse apprezzare adeguatamente una buona opera teatrale solo quando avesse visto come gli attori si comportano dietro le quinte. La stessa cosa vale per quei romanzi degli ultimi 50 anni, dove si crede di aver rappresentato adeguatamente i personaggi solo dopo averli descritti nella camera da letto, e per quei film dove si ritengono indispensabili scene di nudo.
Ciò che è rivestito, coperto, puro, casto, viene considerato a priori falso, travestito, impuro; così facendo, si dà solo prova della propria mancanza di purezza. La diffidenza e il sospetto elevati ad atteggiamento base nei confronti degli altri è la rivolta della mediocrità.
Dal punto di vista teologico l’errore è duplice:
- in primo luogo si crede di poter giudicare una persona peccatrice solo dopo aver spiato i suoi punti deboli e i suoi tratti più ordinari;
- in secondo luogo si crede che l’essenza dell’uomo sia costituita dai retroscena interiori, intimi, e questa viene chiamata la sua “interiorità”;
ora, il dominio di Dio dovrebbe consistere proprio in questi umani recessi! Per il primo punto, si deve dire che l’uomo è certamente peccatore, ma detto questo ci manca ancora molto perché sia volgare. Per essere banali, Goethe o Napoleone dovrebbero essere dei peccatori per il fatto di non esser stati sempre dei mariti fedeli? Ciò che conta non sono i peccati della debolezza, ma quelli forti. Non c’è alcun bisogno di andar in giro a spiare.
La Bibbia non lo fa mai. (Peccati forti: per il genio, l’hybris; per il contadino, infrangere l’ordine – il decalogo non è, forse, un’etica contadina? –; per il borghese, il timore della libera responsabilità. Giusto?).
Per il secondo punto: la Bibbia non conosce la nostra distinzione tra interiorità ed esteriorità. Perché dovrebbe? Ciò che conta per la Bibbia è sempre l’ἄνυρωπος τέλειος, l’uomo intero, anche quando, come nel discorso della montagna, il decalogo viene spinto nella “massima interiorità”. È assolutamente non biblico pensare che una “disposizione” buona possa prendere il posto del bene nella sua interezza. La scoperta della cosiddetta interiorità è stata fatta solo nel Rinascimento (probabilmente in Petrarca). Il “cuore” nel senso biblico non è la realtà interiore, ma l’uomo intero, quale egli è davanti a Dio. Siccome l’uomo in effetti vive tanto dall’“esterno” verso l’“interno”, quanto dall’“interno” verso l’“esterno”, la convinzione di poterne comprendere l’essenza solo nei suoi retroscena spirituali interiori è completamente deviante.
Io voglio perciò arrivare a questo, che Dio non venga relegato di contrabbando in qualche ultimo spazio segreto, ma che si riconosca semplicemente la maggior età del mondo e dell’uomo, che non si “taglino i panni addosso” all’uomo nella sua mondanità, ma che lo si metta a confronto con Dio nelle sue posizioni più forti, che si rinunci a tutte le astuzie pretesche e che non si considerino la psicoterapia e la filosofia esistenzialista strumenti che aprono la strada a Dio.
L’invadenza di tutti questi metodi è troppo poco signorile per la parola di Dio, perché essa possa associarvisi.
Essa non si associa alla rivolta della diffidenza, alla rivolta dal basso. Essa regna.
Bene, questo sarebbe il momento di parlare concretamente della interpretazione mondana dei concetti biblici. Ma è troppo caldo! Se vuoi mandare di tua iniziativa degli estratti delle mie lettere ad Albrecht500 o ad altri, puoi farlo, naturalmente. Io da parte mia ancora non lo farei, perché solo con te mi arrischio a parlare così in brutta copia, sperando di riceverne degli schiarimenti. Ma fai come credi. Il romanzo si è arenato, e nemmeno il lavoretto per te è ancora del tutto pronto – gennaio-marzo è stato per me un periodo davvero improduttivo. Sono accluse due poesie501. Una, lunga (sul posto in cui mi trovo) preferirei fartela vedere qui502; credo non sia tanto male. Forse te la manderò a parte. Sono molto contento che tu sia sistemato lontano dalla strada; e anche che tu abbia una camera rivolta a nord, e che il paesaggio sia tanto bello dalle vostre parti. Presto saremo indotti a pensare al viaggio che abbiamo fatto insieme nell’estate del 1940, ai miei ultimi sermoni503! E ora sta’ bene, mille grazie per ogni ricordo e per ogni biglietto che mi arriva. Non darti troppo disturbo per questo. So quanto sia difficile per te, ora. Ma per me è una grande gioia sentire una parola. Dio ti protegga, caro Eberhard, e ti faccia tornare presto sano e salvo da noi. Di cuore ti saluta con fedeltà il tuo Dietrich Mi sembrerebbe un gesto davvero gentile da parte tua, se tu non buttassi le mie lettere di argomento teologico, ma le inviassi a Renate, visto che laggiù rappresentano sicuramente un grosso problema per te. Forse in seguito mi capiterà di volerle rileggere per il mio lavoro. Ci sono cose che in una lettera si scrivono con maggior naturalezza e vivacità che in un libro; inoltre, nel linguaggio epistolare mi vengono spesso idee migliori che tra me e me. Ma non è così importante. Il signor H. Linke, Berlin-Friedrichshagen, Wilhelmstrasse 58, avrebbe piacere di ricevere di quando in quando tuoi saluti.
Ora chiudo! Penso che ci rivedremo ben presto! Nel frattempo auguro ogni bene! il tuo Dietrich
CHI SONO? /Poesia)
Spesso mi dicono che esco dalla mia cella disteso,
lieto e risoluto come un signore dal suo castello.
Chi sono? Spesso mi dicono che parlo alle guardie con libertà, affabilità e chiarezza come spettasse a me di comandare.
Chi sono? Anche mi dicono che sopporto i giorni del dolore imperturbabile, sorridente e fiero come chi è avvezzo alla vittoria.
Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto quale io mi conosco?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli, assetato di parole buone, di compagnia,
tremante di collera davanti all’arbitrio e all’offesa più meschina, agitato per l’attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per gli amici infinitamente lontani, stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?
Chi sono? Sono questo o sono quello?
Oggi sono uno, domani un altro? Sono tutt’e due insieme?
Davanti agli uomini un simulatore e davanti a me uno spregevole, querulo vigliacco?
O ciò che è ancora in me somiglia all’esercito sconfitto che si ritrae in disordine davanti alla vittoria già conquistata?
Chi sono? Questo porre domande da soli è derisione.
Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo son io, o Dio!
Bonhoeffer, Dietrich. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere . San Paolo Edizioni. Edizione del Kindle.
Nella sofferenza di Dio l'incontro con l'Uomo, piuttosto che il contrario - Dietrich Bonhoeffer
16 luglio 1944 Tegel
E ora qualche pensiero ancora sul nostro tema. Mi sto avvicinando un po’ alla volta alla interpretazione non religiosa dei concetti biblici. Vedo di più il compito, di quanto non riesca già a risolverlo.
- Per quanto riguarda l’aspetto storico: quella che porta all’autonomia del mondo è una grande evoluzione.
In teologia, anzitutto Herbert di Cherbury, che è stato il primo ad affermare la sufficienza della ragione per la conoscenza religiosa. - In morale: Montaigne e Bodin, che elaborano delle regole di condotta al posto dei comandamenti.
In politica: Machiavelli, che svincola la politica dalla morale comune e fonda la dottrina della ragion di Stato.
Più tardi, molto diverso da lui nei contenuti, ma conforme per quanto riguarda la prospettiva dell’autonomia della società degli uomini, H. Grotius, che formula il suo diritto naturale come diritto dei popoli, valido «etsi deus non daretur», «anche se Dio non esistesse». - Infine, il contributo conclusivo della filosofia:
- da una parte il deismo di Descartes (il mondo è un meccanismo, che procede autonomamente, senza l’intervento di Dio),
- dall’altra il panteismo di Spinoza (Dio è la natura).
- Kant in sostanza è deista, Fichte ed Hegel sono panteisti.
Ovunque, la meta del pensiero è l’autonomia dell’uomo e del mondo. (Nelle scienze della natura la cosa comincia evidentemente con Niccolò Cusano e con Giordano Bruno e la loro dottrina – “eretica” – dell’infinità del mondo. Sia il cosmo antico sia il mondo creato secondo la concezione medievale sono finiti. Un mondo infinito – comunque esso sia concepito – si basa su se stesso, etsi deus non daretur.
La fisica moderna invero rimette in discussione l’infinità del mondo, senza però con questo ricadere nel concetto antico della sua finitezza).
Dio inteso come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica, è eliminato, superato; ma lo è ugualmente anche come ipotesi di lavoro filosofica e religiosa (Feuerbach!).
Rientra nell’onestà intellettuale lasciar cadere questa ipotesi di lavoro, ovvero rimuoverla quanto più completamente possibile. Uno scienziato, un medico ecc. edificanti sono come degli ermafroditi. Dove dunque Dio mantiene ancora una spazio per sé? chiedono gli animi pavidi, e poiché non trovano risposta, condannano tutt’intera questa evoluzione che li ha condotti in una siffatta situazione di difficoltà.
Ti ho già scritto delle diverse uscite d’emergenza per il problema dello spazio divenuto troppo ristretto. Ci sarebbe ancora da aggiungere il salto mortale all’indietro nel Medioevo. Ma il principio del Medioevo è l’eteronomia in forma di clericalismo. Ritornare a questo può invero risultare solo un passo disperato, che non può essere compiuto se non a prezzo del sacrificio dell’onestà intellettuale. È un sogno sulle note di: «Oh conoscessi la strada del ritorno, la lunga strada verso la terra dell’infanzia». Ma questa strada non esiste – in ogni caso, non in forza dell’arbitraria rinuncia all’onestà interiore, ma solo nel senso di Mt 18,3, cioè in forza della penitenza, cioè dell’onestà estrema.
E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – etsi deus non daretur. E appunto questo riconosciamo – davanti a Dio! Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento. Così il nostro diventar adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34516)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!
Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare. In questo senso si può dire che la descritta evoluzione verso la maggior età del mondo, con la quale si fa piazza pulita di una falsa immagine di Dio, apra lo sguardo verso il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo grazie alla sua impotenza. Qui dovrà appunto inserirsi la “interpretazione mondana”.
18 luglio
Forse qualche lettera è andata perduta a causa dei bombardamenti su Monaco? Hai ricevuto quella con le due poesie? Era in viaggio proprio in quel periodo, e conteneva anche alcune considerazioni introduttive sul tema teologico. La poesia Cristiani e pagani contiene un’idea che ritroverai qui. «I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza», questo distingue i cristiani dai pagani. «Non potete vegliare con me un’ora?», chiede Gesù nel Getsemani. Questo è il rovesciamento di tutto ciò che l’uomo religioso si aspetta da Dio
L’uomo è chiamato a condividere soffrendo la sofferenza di Dio in rapporto al mondo senza Dio. Deve perciò vivere effettivamente nel mondo senza Dio, e non deve tentare di occultare, di trasfigurare religiosamente, in qualche modo, tale esser senza Dio del mondo. Deve vivere “mondanamente” e appunto così prende parte alla sofferenza di Dio; l’uomo può vivere “mondanamente”, cioè è liberato dai falsi legami e dagli intralci religiosi.
Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo.
Questa è la μετάνοια: non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla sua strada nell’evento messianico costituito dal fatto che Is 53 si compie ora! Donde: «credete all’evangelo», ovvero, in Giovanni, il richiamo all’«agnello di Dio che porta i peccati del mondo» (tra parentesi: A. Jeremias recentemente ha sostenuto che “agnello” in aramaico può essere tradotto anche con “servo”: molto bello in relazione ad Is 53!).
Questo venir trascinati nella sofferenza messianica di Dio in Gesù Cristo nel Nuovo Testamento si realizza in diversi modi:
- attraverso la chiamata dei discepoli alla sequela,
- attraverso il sedere alla stessa tavola con i peccatori,
- attraverso le “conversioni” nel senso più proprio del termine (Zaccheo),
- attraverso il gesto della grande peccatrice (che avviene senza confessione di colpa; Lc 7),
- attraverso la guarigione dei malati (vedi sopra, Mt 8,17),
- attraverso l’accoglienza dei bambini.
- Tanto i pastori quanto i Magi d’Oriente stanno davanti alla mangiatoia non come dei “peccatori convertiti”, ma semplicemente perché vengono attirati dalla mangiatoia (la stella) così come sono.
- Il centurione di Cafarnao, che non pronuncia assolutamente nessuna confessione, viene presentato come esempio di fede (cfr. Giairo).
- Gesù “ama” il giovane ricco.
- Il tesoriere etiope (Atti 8),
- Cornelio (Atti 10), non sono per niente delle esistenze sull’orlo dell’abisso.
- Natanaele è un «israelita senza falsità» (Gv 1,47);
- e, infine, Giuseppe di Arimatea e le donne al sepolcro.
L’unica cosa comune a tutti costoro è il prender parte alla sofferenza di Dio in Cristo. Questa è la loro “fede”. Nessuna traccia di metodica religiosa, l’“atto religioso” è sempre qualcosa di parziale, la “fede” è qualcosa di totale, un atto che impegna la vita (Lebensakt).
Gesù non chiama ad una nuova religione, ma alla vita. Come si presenta però questa vita? Questa vita della partecipazione all’impotenza di Dio nel mondo? Di questo spero di scriverti la prossima volta. Oggi ti dirò solo questo: se si vuole parlare di Dio in modo “non religioso”, allora si deve parlarne in modo tale che con ciò non venga occultato, ma, al contrario, venga portato alla luce l’esser senza Dio del mondo; e proprio così sul mondo cade una luce stupefacente. Il mondo adulto è senza Dio più del mondo non adulto, e proprio perciò forse più vicino a lui. Scusa se la cosa è detta in modo terribilmente goffo e scadente: me ne accorgo benissimo. Ma forse proprio tu mi aiuterai più avanti a chiarire e a rendere più semplice tutto questo, non foss’altro che per la possibilità da parte mia di parlare con te, e sentire al tempo stesso le tue continue domande e risposte! L’indirizzo518 attuale è H. Linke, Berlin-Friedrichshagen, Wilhelmstrasse 58. – Sono molto contento che tu abbia già superato i valichi montani. Qui quasi tutte le notti ci alziamo all’una e mezza. È un brutto periodo e nuoce al lavoro. Spero di aver presto tue notizie, e ti saluto facendoti i migliori auguri, e con un ricordo fedele e riconoscente. Sempre tuo Dietrich
Bonhoeffer, Dietrich. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere . San Paolo Edizioni. Edizione del Kindle.
21 luglio 1944 Tegel
Negli ultimi anni ho imparato a conoscere e a comprendere sempre più la profondità dell’essere-aldiquà (Diesseitigkeit) del cristianesimo; il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, così come Gesù – a differenza certo di Giovanni Battista – era uomo.
Intendo non il piatto e banale essere-aldiquà degli illuminati, degli indaffarati, degli indolenti o dei lascivi, ma il profondo essere-aldiquà che è pieno di disciplina e nel quale è sempre presente la conoscenza della morte e della risurrezione. Io credo che Lutero sia vissuto in siffatto essere-aldiquà.
Mi ricordo di un colloquio che ho avuto 13 anni fa in America con un giovane pastore francese. C’eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo – e credo possibile che lo sia diventato –; la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contrastai, e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere.
Per molto tempo non ho capito la profondità di questa contrapposizione. Pensavo di poter imparare a credere tentando di condurre io stesso qualcosa di simile ad una vita santa. Come conclusione di questa strada scrissi Nachfolge (Sequela). Oggi vedo chiaramente i pericoli di questo libro, che sottoscrivo come un tempo. Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita.
Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di Chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è μετάνοια, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cfr. Geremia 45).
Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti. Forse ti meraviglierai di una lettera così personale. Ma desiderando io infine dire qualcosa del genere, a chi altri avrei dovuto dirlo? Forse verrà il momento in cui potrò parlare in questo modo anche a Maria; lo spero molto. Ma ora non posso pretendere una cosa simile da lei. Dio ci guidi con benevolenza attraverso questi tempi; ma soprattutto ci guidi a lui. Mi ha fatto grandissimo piacere il biglietto che mi hai inviato, e sono contento che non abbiate troppo caldo. Da parte mia ci sono ancora molte lettere che dovrebbero arrivarti. Nel 1936 non abbiamo percorso forse press’a poco questo tratto di strada? Sta’ bene, cura la salute, e non lasciar cadere la speranza che presto ci rivedremo tutti. Con fedeltà e gratitudine ti pensa sempre il tuo Dietrich
Bonhoeffer, Dietrich. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere . San Paolo Edizioni. Edizione del Kindle.
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